Tomaso Montanari
Il soprintendente del Maggio Musicale fiorentino Alexander Pereira ha appena, candidamente dichiarato che “il Teatro del Maggio è troppo grande per Firenze”. Una vera bomba.
Come è potuto succedere che Firenze si sia trovata con un Teatro sbagliato? È con Renzi a Palazzo Vecchio che si rottama il glorioso Teatro Comunale, cedendolo a Cassa Depositi e Prestiti “e per suo tramite agli allora soci del padre del sindaco, nel frattempo diventato premier. Questi ultimi poi, colpiti dalla lentezza burocratica e dalle inchieste giudiziarie, hanno gettato la spugna e l’immobile è tornato alla Cassa, che l’ha rivenduto al gruppo Hines” (così il Fatto Quotidiano, che ha sempre attentamente seguito questa terrificante vicenda), immobiliaristi americani che ora lo trasformeranno nell’ennesimo, grottesco studentato di lusso di questa povera città.
Via il Teatro vecchio, ecco il Teatro nuovo: inutilmente enorme, proporzionato solo all’ego del Saudita, che lo inaugurò due volte (per finta nel 2011, e poi nel 2014): prima affidandolo alla soprintendente Colombo, poi (di fronte al crescere del debito) commissariandolo con Francesco Bianchi (fratello dell’avvocato Alberto: quello che teneva la cassa della sua fondazione Open, con metodi e fini ora noti a tutti). L’investimento iniziale sfiora i 265 milioni, e insieme allo Stato c’è la significativa partecipazione della Regione il cui contributo aiuta a finire i lavori. Tre anni fa, con uno stanziamento di altri 60 milioni, parte una seconda tranche di lavori per l’apertura di una seconda sala: l’auditorium da 1.000 posti che si inaugura il prossimo 21 dicembre. E che si somma alla sala grande, che ha 1.800 posti: troppi, ammette ora il Soprintendente.
E veniamo a lui. Pereira è un boiardo di Stato che si comporta come se fosse un ministro del Re Sole. È infatti lo Stato, con una media di oltre 16 milioni l’anno, l’azionista di maggioranza della Fondazione: seguono Comune e Città metropolitana con circa 6 milioni, e Regione con 3,2. La complessiva raccolta di sponsorizzazioni private è ferma intorno al 10% del bilancio annuale. È il fallimento del modello delle fondazioni liriche: che sono tutte – tranne la Scala e in parte Santa Cecilia – teatri di Stato, anche se (assurdamente) gestiti dai sindaci. Pereira è un pensionato austriaco 74enne, con un cursus honorum iniziato da dealer all’Olivetti. Da lì è diventato direttore dell’Operahaus di Zurigo e, dopo un rapido passaggio dal Festival di Salisburgo, viene nominato dall’allora sindaco Pisapia alla Scala, dalla quale viene infine allontanato prima della scadenza del mandato, in seguito a una serie di incidenti diplomatici, tra cui il tentativo poi respinto di far entrare nel cda scaligero un fondo d’investimento saudita. Quando Nardella lo porta a Firenze gli viene assicurato lo stesso compenso (240 mila euro annui) che aveva alla Scala: un teatro con un bilancio dieci volte superiore al Maggio! Le produzioni che mette in scena sono sfarzose, costose: troppo.
Il massimo si raggiunge la scorsa estate con il monteverdiano Ritorno di Ulisse in Patria, eseguito al teatro della Pergola affittato per oltre un mese dalla Fondazione Maggio. I costi stellari della produzione non vengono minimamente risarciti dalla bigliettazione: si dice che a fronte di costi che superano largamente il milione, i ricavi siano sotto i 50 mila euro. Davvero irresponsabile, se si rammenta che il Maggio è la Fondazione lirica più indebitata d’Italia, per oltre 50 milioni. Il piano di rientro era stato iniziato dal predecessore di Pereira, Cristiano Chiarot, che tagliò i costi e riempì il teatro a prezzi popolari. La città tornò così a teatro, o ci andò per la prima volta. Il costo dei biglietti era mediamente il più basso d’Italia, e la sala sfiorava percentuali di riempimento inimmaginabili.
Ma col nuovo corso di Pereira imposto da Nardella i biglietti di platea esplodono a un costo medio che sfiora i 200 euro: folle, impopolare, ingiusto. E infatti i biglietti non si vendono, e si grida al successo quando – in rare circostanze – in sala ci sono 600 persone su 1.800 posti. Si capisce che il Teatro vada all’incanto: chi paga di più, decide a chi intitolarne sale e foyer.
Ora la legge di stabilità di Draghi istituisce un fondo di 150 milioni in due anni, utili a ripatrimonializzare la Fondazioni indebitate: un provvedimento tampone che salva soprattutto un marcescente sistema di potere. Così il debito di Firenze viene alleggerito, ma non cancellato: ma sarà inutile, se non ci si chiede per chi è fatta una produzione che costa quanto quella della Scala in una città cinque volte più piccola di Milano, e nella quale il teatro è ancora percepito come non integrato nel tessuto urbano. E poi: è sensata, corretta, sostenibile una politica culturale finanziata dallo Stato alla quale i cittadini non possono permettersi di accedere?
Forse Firenze ha davvero un teatro troppo grande: di certo chi la governa è troppo piccolo.
Articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il 6 dicembre 2021. Fotografia di Nicola (CeDoMus) da Wikimedia Commons.
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