Beni culturali ai privati: un flop storico

Leonardo Bison

Sembrano tempi lontanissimi quelli in cui si celebrava il fatto che la Certosa di Trisulti sarebbe stata gestita da un soggetto privato, seppur non si sapesse bene chi fosse. Era il 2016, come racconta il pezzo accanto [riprodotto in calce a questo articolo, ndr], ed era la prima volta che lo Stato metteva a bando la gestione di beni culturali del demanio. Ma non era la prima volta che uno di questi andava in concessione.

Negli ultimi tempi si parla tanto di concessioni demaniali ai balneari, ma il sistema riguarda da vicino anche i beni culturali, sia in senso generico (dall’uso delle foto alla gestione dei servizi di biglietteria) sia sia per gli immobili. La gestione del demanio con valore culturale non risulta però affatto normata: nel Codice dei Beni Culturali si chiarisce soltanto che possano essere concessi servizi e beni, compatibilmente al loro carattere culturale, in cambio del pagamento di un canone. E che “la concessione delle attività di valorizzazione possa essere collegata alla concessione in uso degli spazi necessari all’esercizio delle attività medesime”. Tradotto: concedo il bene perché tu lo apra al pubblico. Naturalmente può anche essere revocata.

Le norme in verità sono vaghe e, non disciplinando la gestione esclusiva del bene, da decenni la prassi fa giurisprudenza. I vuoti sono molteplici: chi gestisce un bene in concessione può usarlo per produrre? Può staccare biglietti? E quanto possono durare al massimo le concessioni, senza nuovi bandi? Anche se l’idea che un soggetto privato li apra al pubblico senza costi per lo Stato può sembrare virtuosa, ci si deve chiedere quanto l’imporre biglietti per entrare in beni pubblici sia coerente con la missione del ministero della Cultura: le gratuità che esistono nei beni gestiti dallo Stato (under 18, guide turistiche etc.), per dire, non valgono nel caso di beni gestiti da terzi. Facciamo qualche esempio: il Fai (Fondo ambiente italiano) gestisce in concessione dallo Stato senza bando la Villa Gregoriana di Tivoli dal 2002, i giardini della Kolymbetra ad Agrigento dal 1999, e pochi anni fa ha ottenuto in concessione dalla Provincia l’abbazia di Santa Maria di Cerrate, in Salento, fino al 2042 (30 anni). La Fondazione lì si autofinanzia con attività, visite, a volte affitti e produzione di prodotti agricoli. È solo un caso dei tanti, il più noto.

Inoltre, benché le singole amministrazioni abbiano contezza di ciò che è in concessione, non risulta esista un registro nazionale dei beni del demanio in concessione. Nel luglio 2019, l’allora ministro Alberto Bonisoli, in seguito allo scandalo della Certosa di Trisulti, scrisse che riguardo alle concessioni voleva “vederci chiaro”, ritenendo “doverosi” una revisione e il monitoraggio delle stesse. Non risulta sia iniziato alcun processo simile.

Altro bel flop (e quindi un interessante caso studio) è il bando del 2016, con cui Trisulti è finita alla destra internazionale senza che il ministero lo sapesse e che doveva essere nelle intenzioni il primo di una lunga serie. Doveva portare alla “realizzazione di un progetto di gestione del bene” che ne assicurasse “la conservazione” e ne promuovesse “la pubblica fruizione e una migliore valorizzazione”. Il ministro Dario Franceschini aveva poi firmato un decreto per la concessione di pezzi di patrimonio pubblico a realtà non profit e aveva dichiarato che queste “potranno partecipare con una procedura chiara e trasparente alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale, uno strumento che consentirà di partire dal basso nell’adempimento dell’articolo 9 della Costituzione”. Pubblico e privato sociale, era l’intenzione, “perseguono lo stesso obiettivo a favore del patrimonio culturale a tutto vantaggio dell’intero sistema Paese”. In pratica, insieme a Trisulti, lo Stato proponeva di concedere altri 12 beni del demanio in base all’offerta “economicamente più vantaggiosa”. Si richiedeva un progetto, e il curriculum di chi presenta l’offerta, in particolare “documentata esperienza almeno quinquennale nel settore della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale” e “nella gestione, nell’ultimo quinquennio, di almeno un immobile culturale, pubblico o privato”, ma tutto era autocertificato. E poi si richiedeva un canone annuo stabilito su una base d’asta. La concessione durava da 6 a 10 anni, ma il bando prevedeva che potesse essere prolungata fino a 19 anni “in considerazione di peculiari finalità perseguite dal richiedente, in particolare nell’ipotesi in cui il concessionario si obblighi a eseguire consistenti opere di ripristino, restauro o ristrutturazione particolarmente onerose”.

Peccato che per sei dei beni coinvolti su 13 non arriva nessuna offerta. Per due arrivano solo offerte che non possono essere accettate per problemi nella documentazione (nel caso di Villa del Colle del Cardinale a Perugia, viene scartata l’offerta del Sacro Ordine dei Cavalieri di Malta). Per 4 dei beni rimasti arriva solo un’offerta che rispetta i requisiti: solo in un caso due offerte risultano ricevibili. In sintesi, in 4 casi su 5 i beni vanno in gestione all’unico offerente rimasto. 

Già nel 2017 ci si rendeva conto che qualcosa era andato storto ma, come scriveva Repubblica “il valore del bando sta nella sua valenza politica: essendo il primo, ha avuto il merito di fare da apripista ad analoghi futuri bandi”. Per ora non è andata così, perché quel bando ha avuto conseguenze peggiori del previsto. Non solo a Trisulti.

Per i quattro beni che hanno trovato un concessionario vincente, è andata così. Villa Giustiniani a Bassano Romano è rimasto allo Stato: il Fai, che aveva vinto la gara, non l’ha mai preso in gestione. La Chiesa di San Barbaziano a Bologna, andata in gestione ad Aics (l’Associazione italiana cultura sport) per 15 anni, tutt’ora è chiusa e i restauri (finanziati dallo Stato, che ha stanziato circa 800 mila euro) sono in corso, ma procedono a singhiozzo. Il Castello di Canossa a Reggio Emilia è andato in gestione per 10 anni a un’associazione di volontariato che organizza eventi e visite guidate: il canone è di 4 mila euro l’anno, ma il sito dell’associazione non è aggiornato dal 2019. Villa del Bene, in località Volargne a Dolcè (Verona) è gestita da un consorzio di imprese e associazioni e sembra funzionare bene con eventi e mostre frequenti. A vincere era però stata la Pro Loco del posto, che poi ha creato il consorzio di gestione.

Fonti che hanno seguito la pubblicazione del bando notano che il problema è stato l’equiparare beni enormi e piccoli: nel caso di abbazie e castelli, difficile che una non profit abbia il denaro per gestione e restauri, mentre il canone annuo a base d’asta, senza aiuto statale per la manutenzione, ha spaventato le associazioni culturali. Anche Italia Nostra al tempo aveva rinunciato a presentare domanda per i beni del Lazio, giudicati troppo onerosi. In sintesi, le storie di successo sono poche mentre tanti dei vuoti che si sperava di coprire con la concessione sono ancora lì: molti dei beni coinvolti sono tutt’ora chiusi al pubblico senza che queste riflessioni sembrino toccare la dirigenza ministeriale. Un nuovo regolamento che normi quando (e per quanto), come e perché si possa concedere un bene pubblico in gestione esclusiva appare necessario: l’uscita di scena dei sovranisti di Trisulti dopo tre anni di tribunali e la sentenza del Consiglio di Stato sulle concessioni balneari trasformano un’opportunità in urgenza, per evitare che vinca ancora il miglior offerente. Di cui, spesso, non si conoscono le reali intenzioni.

 

 

Così la Certosa di Trisulti era finita ai Bannon boys

Lunedì 15 novembre, alla Certosa di Trisulti (Collepardo, Frosinone) si è tenuta una cerimonia come non se ne vedevano da anni. La Certosa ha riaperto al pubblico, gratuitamente, e con visite guidate nei weekend. C’erano il ministro della Cultura, Dario Franceschini, che dichiarava “le potenzialità di questo sito sono incredibili” e l’intenzione di farne un luogo di incontro per i camminatori di tutta Europa, e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, che parlava di “una bella vittoria di tanti cittadini che, insieme alle istituzioni, hanno permesso di riscoprire e valorizzare uno dei luoghi più belli della nostra storia”. E dopo il migliaio di visitatori che ha affollato la Certosa nel primo weekend, sembrano dimenticati i tempi in cui, con un bando pubblico, il ministero aveva deciso di concedere quel bene in gestione a un soggetto privato, nel 2016. Il resto della storia è in parte nota: la Certosa va in gestione a Dignitatis Humanae Institute (Dhi), un istituto dell’estrema destra internazionale, che pensa di farne una scuola politica per sovranisti. La comunità locale insorge, inizia un’indagine, grazie anche al lavoro giornalistico del quotidiano locale Farodiroma, e nel 2019 la concessione viene revocata dato che Dhi, per ottenerla, aveva presentato documentazione falsa. La vulgata ministeriale vuole che tutto ciò sia avvenuto perché c’è stato un inganno. Ma è davvero così semplice?

Ripartiamo dall’inizio, da quei giorni del 2017 quando, a bando chiuso, vengono rese note le offerte. Per la Certosa di Trisulti ne sono arrivate due. Una è del Dignitatis Humanae Institute, che poi vincerà, la seconda è dell’accademia nazionale delle Arti, con sede nel Castello di Petroro a Todi. Entrambi non si riveleranno buoni clienti: se Dhi, che aveva tra i suoi promotori Steve Bannon (sotto processo in America per l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2020) una volta ottenuta la concessione spiegherà di voler fare della Certosa un’accademia politica, l’accademia nazionale delle Arti non sarebbe stato un concessionario migliore. Aveva sede in un immobile dato in locazione a un autoproclamato abate che poco dopo, nel 2018, è stato arrestato. Per la Guardia di finanza si trovava a capo di una “solida organizzazione criminale” che aveva posto in essere una frode milionaria: l’“abate”, secondo le indagini, era riuscito a drenare dai risparmiatori decine di milioni di euro fatti confluire su due fondi poi accreditati su conti correnti alle Isole Mauritius. Ma nel caso di Trisulti, l’accademia viene scartata per un vizio di forma: non presenta la documentazione sui beni culturali gestiti nel quinquennio precedente anche se aveva, letteralmente, sede in un bene culturale.

Dignitatis Humanae Institute poteva contare su appoggi diversi, come già messo in luce da Report (Rai3), in particolare su una “presentazione speciale per Sua Santità papa Francesco” del cardinale Renato Raffaele Martino. E in un primo momento ottiene tutto quello che vuole. Il massimo degli anni possibili, secondo quel bando, per la concessione: 19. Il perché è presto detto: dato che il bando valutava l’offerta “economicamente più vantaggiosa”, Dhi offre un canone annuo quasi dieci volte superiore alla base d’asta proposta (14 mila euro), ben 100 mila euro annui. A differenza dell’altro pretendente, Dhi presenta documentazione falsa sul fatto di aver gestito in passato beni culturali: è il museo monastico di Civita, mai esistito; modifica la ragione sociale e così ottiene la concessione. E, nonostante l’inesistente museo, creato ad hoc nel 2016, avesse sede nel Lazio, il contratto viene firmato.

Leggendo i verbali delle commissioni riunite, si scopre che c’è stato anche un minacciato esposto alla Procura della Repubblica da parte di un comitato locale riguardo la concessione a Dhi della Certosa: tutto inutile. Dignitatis Humanae Institute entra nell’istituto nel 2017 e ci vorranno tre anni, ricorsi, una sentenza del Tar e una del Consiglio di Stato (e un canone pagato in ritardo per due anni consecutivi, 2018 e 2019) per farli uscire. Il Fatto ha chiesto a membri della commissione ministeriale che ha vagliato le offerte come sia stato possibile firmare un contratto della durata di 19 anni di fronte a un’offerta tanto abnorme, e a un offerente di cui la commissione e il ministero sapevano poco (come testimoniato dal fatto che, una volta rese palesi le reali intenzioni dei concessionari, ci si muove per la revoca). Ma non abbiamo ottenuto risposta, se non il fatto che ci si è tenuti scrupolosamente alle norme. E ci si chiede, quindi, come sarebbe andata se Dhi si fosse limitata a gestire in silenzio il bene per fini propri, invece di proclamare pubblicamente la volontà di farne una scuola politica sovranista. Ma sono domande superflue: ciò che conta è far tesoro dell’esperienza di quelle concessioni, che ora pare si voglia dimenticare.


Articoli pubblicati su “Il Fatto Quotidiano” il 21 novembre 2021. Fotografia in evidenza di Croberto68 da Wikipedia Commons. Fotografie nel testo da Wikimedia Commons (Villa del Colle del Cardinale a Perugia, Villa Giustiniani a Bassano Romano, Chiesa di San Barbaziano a Bologna, Castello di Canossa a Reggio Emilia, Villa del Bene in località Volargne a Dolcè).

 

Leggi anche

Altri articoli