Tomaso Montanari: “Diamo un futuro alle chiese chiuse”

Nicola Signorile

O vandalizzate o valorizzate: è questo il destino delle chiese storiche in Italia? «Sembrano due opposti ma non è così – dice Tomaso Montanari – perché la valorizzazione dei monumenti, per come la si intende in Italia, è prostituzione. L’unico valore che si riconosce al bene culturale è quello di mercato ma così lo si snatura. E se vandalizzare significa perdere per sempre il bene, valorizzare in questo modo vuol dire conservarlo materialmente, ma perdere la sua funzione, destinarlo al contrario della ragione per cui esiste». Tomaso Montanari ha appena pubblicato da Einaudi Chiese chiuse, un saggio – sottolinea l’autore – scritto «da cittadino, da storico dell’arte e da cattolico». Ne discuterà con l’arcivescovo di Trani, monsignor Leonardo D’Ascenzo, e con lo scrittore Alessandro Zaccuri giovedì 22 (alle 18,30) in piazza Quercia a Trani, ospite dei Dialoghi che quest’anno hanno per tema la convivenza. E la chiesa è, per Montanari, spazio in cui convivono passato e presente.

Le chiese chiuse, lei sostiene, sono vittime della dittatura dell’eterno presente e al tempo stesso una metafora delladimensione politica odierna. Cosa intende?
«L’autore che nel Novecento italiano ha meglio sottolineato la compresenza di passato e presente è Carlo Levi. In Cristo si è fermato a Eboli si rappresenta un passato che è vivo nella cultura contadina, in quella cultura meridionale che sembrava espulsa dall’Italia moderna e invece continuava ad esserci, salvandosi dalla alienazione di una modernità senz’anima. Una espressione della teologia cattolica è la comunione dei vivi e dei morti. Ma i morti sono vivi nelle cose, negli oggetti, nelle parole scritte sulle lapidi. Una parte del senso che diamo alla vita appartiene a questa presenza del passato, allo scarto rispetto alla dimensione del presente. E questo ha molto a che fare con la politica, che oggi è solo scontro tra interessi parziali, incapace di costruire l’interesse generale. C’è un tradimento radicale se non si tiene in conto la dimensione del passato e da questo punto di vista le chiese sono uno spazio “altro”: oltre la soglia il passato c’è ancora».

Un capitolo del suo saggio è intitolato “L’industria del sacrilegio”: quando non vengono saccheggiate, le chiese storiche si privatizzano, diventano luoghi del turismo di lusso e del marketing. In un altro suo libro, “Istruzioni per il futuro”, lei affermava che imboccando la via del patrimonio come “petrolio d’Italia” ci siamo preclusi quella del patrimonio come bene comune. Anche le chiese sono beni comuni?
«Certamente. Le chiese sono luoghi pubblici. Nessuno ha mai chiesto il certificato di battesimo a chi entrava in chiesa. Luogo del culto cattolico, ma aperto a tutti, anche ai criminali e agli assassini che chiedevano asilo. Noi che oscilliamo tra la solitudine egoista e una massificazione impersonale troviamo invece nelle chiese uno spazio di comunità: sono luoghi della preghiera individuale ma al tempo stesso luoghi collettivi, inclusivi».

Anche a Bari vecchia, delle chiese antiche due su tre sono inaccessibili. Come riaprire le chiese? E soprattutto, per farne cosa?
«Se non è più possibile il culto liturgico, da cattolico mi permetto di suggerire che la chiesa debba almeno continuare il culto del “vero uomo”, non passare all’alienazione totale. I musei cominciano quando la vita delle cose finisce e una chiesa aperta solo per essere visitata dai turisti è “salva” ma ha perduto la sua ragion d’essere. Invece potrebbe ancora avere un ruolo per l’umanità, che nella religione cattolica è fondamentale. Che almeno ci si possa entrare come persone e non come clienti, come consumatori, senza dover pagare il biglietto, per vedere ma anche solo per sedersi e restare in silenzio».

E se una chiesa diventasse una moschea?
«Non mi scandalizzo affatto. Nel rispetto di tutti le chiese possono anche diventare moschee, oppure luoghi di assistenza e di solidarietà, luoghi in cui si coltiva l’umanità. Il grande discrimine è l’altro Dio, di cui parla il Vangelo, il dio Denaro».

Pochi gli investimenti nella tutela, molti su eventi e mostre…
«È questa la linea del ministro Franceschini, ma il programma di Fratelli d’Italia non è differente. È un pensiero unico dominante. Una deriva non innocente: l’uso dei beni culturali per gli “eventi” porta all’asservimento alla propaganda. Avere cambiato il nome del ministero dei Beni culturali in ministero della Cultura è stato un errore. Il Minculpop è dietro l’angolo».

Lo Stato destina scarse risorse finanziarie ai beni culturali, ma c’è chi sostiene che spetta alla Chiesa restaurare e mantenere le sue chiese…
«È difficile stabilire di chi siano le chiese. Spesso sono dei Comuni, alcune appartengono alle diocesi o agli ordini religiosi ma la grande parte delle chiese storiche, monumentali, sono dello Stato. Con l’Unità d’Italia molte sono finite allo Stato perché si è sempre riconosciuta la loro funzione pubblica».

L’attenzione si concentra sulle chiese antiche. Ma quelle moderne? Il panorama certo non è confortante: sono rari i casi di architettura sacra a fronte di una mediocre edilizia che spinge inevitabilmente il fedele o il cittadino a invocare l’imitazione dell’antico, con esiti il più delle volte kitsch.
«C’è stato uno scollamento tra la chiesa e l’arte. Paolo VI provò a rimediare, ma l’arte ha preso altre strade e la Chiesa non l’ha capito, probabilmente se ne sono costruite troppe laddove sarebbe stato meglio recuperare quelle vecchie. Bisogna cercare nuove vie, sarà il tempo a decidere, tuttavia anche la più brutta delle chiese moderne conserva in sé la funzione di uno spazio “altro”, non legato al passato o alla bellezza, ma alla sua funzione di spazio pubblico».


Articolo pubblicato su “la Repubblica – Bari” il 20 settembre 2022. Fotografia da Wikimedia Commons.

 

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