Tomaso Montanari
Dove nasce Gesù, sabato prossimo? Non nelle chiese che “rigurgitan salmi di schiavi e dei loro padroni”. Non in quelle dove si celebra l’alleanza tra trono e altare, “a messa con Salvini”. E nemmeno in quelle cariche di ori, donazioni, canti spettacolari. Perfino l’arte, quando è ridotta a puro bene di consumo per pochi, sembra avere poco a che fare con il Dio che si spoglia di ogni privilegio e di ogni bellezza per assumere la fragilità e il dolore della natura umana. Racconta l’evangelista Luca che quando “alcuni gli fecero notare come il tempio fosse adorno di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: ‘Verranno giorni in cui di tutte queste cose che voi ammirate non sarà lasciata pietra su pietra che non sia diroccata’” (21, 5-6).
I discepoli fermano Gesù, lo invitano a sostare e a guardare, osservare, notare l’architettura, l’arte, l’ornato, le suppellettili sacre e gli oggetti del culto. Gesù risponde prendendo le distanze da questo sguardo estetico (“queste cose che voi ammirate”), e invitando a sua volta a guardare: ma con un altro sguardo. Sembra di poter dire: non con uno sguardo verso il passato, ma con uno rivolto al futuro. Gesù scuote i discepoli perché vedano qual è il vero Tempio, cioè il suo stesso corpo. Egli non detesta affatto il Tempio di pietre: anzi, ne difende la dignità con straordinario zelo, espellendone coloro che lo riducono a merce. La lezione è duplice, e straordinariamente importante non solo su un piano religioso: la bellezza non riguarda le pietre, ma le persone. Il messaggio è chiaro anche per il nostro tempo laico: quando tuteliamo un “bene culturale”, quando vogliamo provare a rendere più bella una periferia urbana non lo facciamo per i diritti di queste cose (che non hanno diritti, e sono morte: inanimate), ma lo facciamo per i diritti degli umani le cui vite sono determinate, nel male e nel bene, da queste cose.
E allora penso che quest’anno Gesù nascerà a Secondigliano. Sì, “tra il salotto buono della città di Napoli e la periferia delle Vele, in un cono d’ombra civico, istituzionale e mediatico”. Là dove vive “la generazione cresciuta a pane e faida, che ha vissuto in casa propria una vita da esule. Quelli che hanno sempre dovuto portare altrove le proprie idee e le proprie competenze perché nati in un posto privo di luoghi ed occasioni”. Sono parole dei ragazzi del Larsec, il Laboratorio di Riscossa Secondiglianese che abbiamo conosciuto qui sul Fatto, e che dal 2014 hanno “deciso che era venuto il momento di riprendersi le strade dopo anni in cui era impossibile girare per via della faida di camorra più violenta degli ultimi trent’anni”. Il Mezzogiorno, la periferia, i giovani: la somma di tutto quello che l’Italia che si specchia nel governo dei Migliori rimuove e dimentica. Tra le tante cose che il Larsec ha fatto e sta facendo (unico polo associativo in un territorio di 42.000 abitanti), c’è anche la riapertura periodica della minuscola chiesa di San Carlo al Ponte, nel cuore di Secondigliano: una cappella secentesca, senza capolavori ma carica di storia. Proprio davanti al suo altare si sposano, il 17 aprile 1791, Pasquale d’Errico di Miano, che ha una piccola fabbrica di maccheroni, e Maria Marseglia di Secondigliano, che tesse la felpa. Il secondo dei loro nove figli è Gaetano: vuole diventare prete, ma i suoi non hanno soldi per iscriverlo al seminario. E così ogni giorno cammina per chilometri, facendo la spola tra il centro e la sua periferia. Il riscatto è lo studio: un anno di logica e metafisica, un anno di fisica, circa tre anni di matematica, due di diritto di natura, tre anni e più di diritto civile e canonico e quattro anni di teologia dogmatica.
E poi una vita spesa per Secondigliano: considerato santo da tutti, saranno infine Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a metterlo davvero sull’altare. Tra le tante cose che san Gaetano d’Errico fa per la sua gente c’è la costruzione di una chiesa, l’Addolorata. Oggi potrebbero essere la Curia e il Comune di Napoli ad affidare San Carlo proprio al Larsec, che da tempo si batte perché riapra stabilmente come centro non solo di culto, ma anche di conoscenza e riscatto.
C’è un filo, in tutta questa storia: la costruzione e il recupero di una chiesa. Perché le antiche chiese italiane (piccole o grandi, ignote o celeberrime) rappresentano un perentorio, struggente invito alla conversione collettiva: in senso laico, terreno. Umano, prima che religioso. Esse chiedono il cambiamento radicale dei nostri pensieri, delle nostre scale di valori, delle nostre sicurezze. Con la loro gratuità, contestano la nostra fede nel mercato. Con la loro apertura a tutti, contraddicono la nostra paura delle diversità. Con la loro dimensione collettiva, mettono in crisi il nostro egoismo. Con la loro povertà, con il loro abbandono, testimoniano contro la religione del successo. Tra le chiese, magari chiuse e vuote, in cui Gesù nascerà, quella di San Carlo al Ponte di Secondigliano ha un posto speciale.
Articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il 20 dicembre 2021. Fotografia dal blog Una voce per Secondigliano.
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