Sull’inutile, anzi dannosa modifica dell’articolo 9 della Costituzione

A commento della recente modifica dell’articolo 9 della Costituzione, vi invitiamo a leggere questo articolo dello scorso settembre.

Giuseppe Severini e Paolo Carpentieri

1. La normazione iconica, fatta di solenni enunciazioni di valori impropriamente vestiti con i panni della legge, è per i giuristi una delle afflizioni dei nostri tempi. Rispecchia la pratica semplificatoria dei social media, di cui replica l’impronta riduttiva e ricerca la formula disintermediata. Le motivazioni non sono dissimili. È in realtà una sovra-legificazione proclamatoria di simboli ben più che produttiva di norme. Corrisponde assai poco a un bisogno di diritto: lo denuncia il fatto che si presenta molto assiologica e per nulla tassonomica; non evidenzia infatti la norma agendi per portare a effetti la proclamazione. Corrisponde a una concezione primaria e regressiva della legge, la espunge dalla realtà articolata dell’edificio del diritto per elevarla a prevaricatorio totem comunicazionale. Insomma, è un paludamento autocelebrativo per il legislatore, ma distante da razionalismo e tecnicismo giuridici. Nel generale crollo culturale della classe politica – ormai più usa al post di foto e battute sui social che al ragionamento e alla dialettica -, la normazione iconica esprime come si possa piegare a un uso politico lo strumento più tipico del diritto, deprivandolo del ragionamento giuridico che vi è coessenziale: e al prezzo di intaccare i postulati della sicurezza giuridica su cui invece si basa lo Stato di diritto.

La normazione iconica è dunque per lo più inutile proprio perché non è corredata da autentiche norme e procedure per dar seguito a quella celebrazione di simboli; ma non raramente è anche dannosa, perché genera confusione alterando la preesistente realtà dell’ordinamento. 

In questo quadro va considerato quanto sta avvenendo nelle aule parlamentari a proposito dell’art. 9 della Costituzione: articolo di preminente importanza tra i principi fondamentali della Carta – fino ad oggi mai toccati dalla penna del legislatore costituzionale – che ora si vorrebbe alterare, apparentemente arricchendolo di un comma, collegato a una contestuale modifica dell’art. 41, ma in realtà per buona parte stravolgere.

 

2. Il 9 giugno 2021 il Senato ha approvato, in prima deliberazione, la proposta di legge costituzionale (in un testo unificato: AC 3156) recante “Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente“.

La proposta aggiunge un terzo comma all’articolo 9 della Costituzione ([La Repubblica] «Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali») e ne modifica l’articolo 41 (aggiungendo, al secondo comma, che l’iniziativa economica privata non può recare danno «alla salute» e «all’ambiente»; e al terzo comma, che l’attività economica pubblica e privata può essere indirizzata e coordinata a fini anche «ambientali»).

A una prima e superficiale lettura, la proposta, a muovere da queste modifiche all’art. 41, dovrebbe suscitare serie perplessità anzitutto in chi si riferisce ai postulati neoliberisti, nei sostenitori del libero mercato come chiave per risolvere ogni questione, nei convinti del primato del Growth and Development: anche perché nemmeno reca più il riferimento testuale al concetto-valvola dello «sviluppo sostenibile», che pure era previsto in una delle proposte riunite in questo testo unificato; e, circa il danno del secondo comma, non reca l’aggettivo «significativo», che pure il recente Regolamento (UE) 2020/852 del 18 giugno 2020 relativo all’istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili si preoccupa di prevedere, in applicazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, ad evitare che qualsivoglia alterazione ambientale, pur minima, possa rilevare negativamente. Ma non dovrebbe dispiacere a chi ha a cuore e vuol difendere il paesaggio e il patrimonio culturale. In fondo, si potrebbe sostenere, questa modifica opera per addizioni, rafforzando la tutela dell’ambiente: la quale, nel suo amplissimo e onnicomprensivo campo di denotazione, include anche il paesaggio; sicché non vi sarebbero ragioni di dubbio dal lato della tutela dei beni culturali, dei beni paesaggistici e del paesaggio. Ma anche in questo caso, come si è più volte osservato in precedenti contributi, “paesaggio” e “ambiente” divergono, si differenziano ed entrano in conflitto. Conflitto oggi acuito, come diremo, dall’irrompere sulla scena giuridica (e politica) della grande notion di “transizione ecologica”, certo positiva ma in realtà a latitudine indeterminata e specie su questo assai delicato fronte. Di tale generale indeterminatezza è ultima riprova la divergenza di contenuto tra l’indirizzo ricavabile dal recente diritto derivato dell’Unione europea e quello ricavabile dalla più recente posizione italiana attuativa del PNRR (il primo puntando ad ogni intervento a finalità green, cioè ambientale; il secondo, almeno nell’ultima stesura, essenzialmente al contenimento del mutamento climatico).

Di conseguenza, a ben vedere – in disparte l’ingenuità giuridica di diversi patrocinatori – questa proposta, se rapportata all’attuale momento storico e letta alla luce delle pressanti contingenze politiche ed economiche, si manifesta in realtà discutibile e assai pericolosa per la tenuta della tutela del paesaggio italiano. Va infatti a incidere, apparentemente per ridondanza ma in realtà per alterazione, su un sistema che ha una sintesi esemplare nel testo dell’articolo 9, secondo comma: snodo dinamico fondamentale, che ha conferito dignità di principio fondamentaleall’esemplare legislazione generalizzata in Italia a muovere dalla legge Croce del 1922, e la ha proiettata con straordinaria attualità verso sviluppi ulteriori, fecondi di risultati, plasticamente aderenti all’unica e irripetibile specificità dei paesaggi italiani, noti al mondo per bellezza e attrattività ed elemento della stessa identità italiana.

È sì un dato oggettivo che l’art. 9 non usa la parola “ambiente” perché questa, nel senso di equilibrio ecologico, è stata tematizzata solo un quarto di secolo dopo: ma questo non vuol dire affatto che non si tratti di un bene che già ha trovato inequivoca protezione nella stessa Costituzione. I giuristi, dai tempi dei Romani, sanno e insegnano che le norme non risiedono nella sola lettera delle disposizioni ma si ricavano dal loro insieme, e che senza mutare nella lettera si attualizzano con la trasformazione sociale: il diritto non è il mero testo della legge, come una concezione primordiale e arcaica del nómos farebbe intendere. Così, da quando mezzo secolo fa è sorta la questione ambientale, dottrina e giurisprudenza ben presto concordarono che la tutela dell’ambiente possiede già una chiara base costituzionale nella combinazione dell’art. 9 e dell’art. 32 sul diritto alla salute. Il che è dato non meno oggettivo del precedente, proprio perché il diritto non è composto dalla mera littera legis.

È dunque indubbio, per il giurista appena consapevole della realtà dell’ordinamento e che guardi all’effettività costituzionale, un dato giuridico inoppugnabile: la Costituzione, nel testo vigente, già tutela l’ambiente. Lo ribadisce testualmente, del resto, da vent’anni l’art. 117, secondo comma, lett. s), che assegna alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali». La previsione fu introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, la c.d. riforma del Titolo V: il che non sarebbe stato possibile se non vi fosse stata già una copiosa giurisprudenza costituzionale che, appunto, affermava che la tutela dell’ambiente era già implicitamente presente nella Costituzione (es. Corte cost., n. 238/1982; 210/1987; 641/1987; ecc.).

Sicché oggi l’aggiunta anche testuale, nell’art. 9, della tutela de «l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi» appare anzitutto inutile, perché ripetitiva di un precetto presente e incontestato e dunque produttiva di nessuna autentica utilità: il che già dovrebbe consigliare un legislatore costituzionale minimamente accorto a non turbare, per un nessun valore aggiunto, il valore superiore della sicurezza costituzionale, e massimamente in tema di principi fondamentali. Ma poco sarebbe, se non si dovesse ahimè rilevare che è soprattutto dannosa. E forse non involontariamente dannosa, almeno per certi punti di vista.

Infatti, la dizione proposta, dalla confusa connotazione e dalla vaga denotazione, reca con sé un effetto pratico dirompente, in particolare per un Paese qual è l’Italia: di banalizzare il principio fondamentale della tutela del paesaggio, che pure è così radicato ed essenziale per la percezione generale di quello che già Dante e Petrarca chiamarono il Bel Paese e che ha trovato nell’art. 9 – come icasticamente scrisse Sabino Cassese – la costituzionalizzazione delle teste di capitolo del corpo legislativo precedente il quale – è da sottolineare – corrispondeva alla tradizione culturale e alla coscienza nazionale. La dannosità, insomma, si profila e si concretizza contro il mirabile paesaggio italiano e contro il delicato, prezioso sistema di sua tutela approntato e affinato con accurata sapienza giuridica lungo tutto un secolo: e questo affonda nell’identità e nella cultura dell’Italia al punto che il collegamento tra cultura e paesaggio – la culturalità del paesaggio – modella la sua protezione giuridica e offre la base al riconoscimento della massima dignità costituzionale.

Nella realtà, infatti, non può sfuggire anche al più distratto tra i giuristi che affiancare la tutela dell’ambiente alla tutela del paesaggio della Nazione, significa porre sullo stesso piano, dunque equiordinare nella forma e nella sostanza, l’una nozione e funzione all’altra. L’effetto reale è di dequotare senz’altro, in pratica vanificare, il rilievo del paesaggio e della sua protezione di fronte a nuove opere che si assumono di difesa dell’ambiente-quantità: in pratica, espungendolo dalla primaria e icastica collocazione tra i principi fondamentali della Costituzione ogniqualvolta la sua difesa si ponga in concreto contrasto con la sua alterazione provocata da interventi mitigatori dell’inquinamento e dunque di contrasto al cambiamento climatico: tali o solo asseriti tali che siano. Come dire che – contro ogni ragionevolezza – il vulnus al paesaggio va non più valutato in concreto ma ora, e per categorie generali, presunto in questi casi come senz’altro inesistente.

La consapevolezza di quanto sopra conduce dunque ad un’estrema cautela davanti a una proposta di modifica costituzionale come quella di cui parliamo. In disparte che per diversi Autori la modifica costituzionale non può giungere a toccare il testo dei principi fondamentali della Costituzione (questo sarebbe il primo caso), la domanda di fondo è se la configurazione materiale e visibile dell’Italia, con quanto vi corrisponde in termini di valore identitario, sedimentazione culturale, attrattività turistica e riferimento, meriti di essere nel volgere di brevissimo tempo sacrificato di fronte a cento e cento foreste di torri eoliche che muterebbero irrimediabilmente l’idea e il “volto amato della Patria”, secondo la celebre espressione di John Ruskin che cento anni fa veniva da tutti evocata a sintesi dell’idea stessa di tutela del paesaggio.

 

3. Occorre dunque guardarsi dall’inganno per cui, a un esame disattento delle implicazioni, sembrerebbero non esservi ricadute nocive per la primazia della tutela del paesaggio. 

Così, in verità, non è: anche indipendentemente dal rapporto con la tutela del paesaggio, va anzitutto rilevato che, in questa formalizzata tutela de «l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni», si può implicare finanche il più ingannevole greenwashing industriale, solo che si vesta appunto di quel comodo e generoso abito. Del resto, oggi finanche il carbone, per taluni, è “verde”, come è verde l’operazione industriale della sostituzione con l’auto elettrica del parco auto circolante, come “verdi” sono le distese di centinaia di ettari di pannelli fotovoltaici messi nei campi agricoli, o i “parchi eolici” che, in nome di quella religione dell’eolico che in Francia sta facendo insorgere molti per le devastazioni che reca, stanno cambiando il volto dei paesaggi appenninici, finora sopravvissuti alla cementificazione. E così si viene direttamente al conflitto tra questa tutela del «l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi» e la tutela del paesaggio consacrata dall’art. 9, secondo comma, della Costituzione. Il punto, reale, è che davvero troppo è in sé acriticamente qualificabile come “verde”, anche operazioni pianificate essenzialmente per lucrare i generosi incentivi pubblici.

È piuttosto un dato oggettivo e realistico che la tutela del paesaggio non sempre va d’accordo con la tutela dell’ambiente se questa è acquisita nella sua declinazione industrialista. Una tale declinazione oggi insidia non infrequentemente il concetto, certo positivo ma non sufficientemente specificato su questo lato, della “transizione ecologica”. In effetti, alcuni suoi sostenitori assumono che qualsiasi opera vi trovi giustificazione in nome del contrasto del riscaldamento globale e che perciò prevale sempre e comunque sulla tutela paesaggistica: perciò polemizzano con le soprintendenze, a loro dire ree di rallentarla; e propugnano la diffusione senza contrasti, dovunque e comunque, dei “parchi” fotovoltaici ed eolici. Il “nemico” della transizione ecologica parrebbe dunque, a dire di costoro, essere costituito dall’effettività della tutela del paesaggio e dagli organi statali che vi danno concretezza … 

In termini concettuali, il rischio, prima ancora che nell’indefinitezza del concetto di “transizione ecologica”, si annida già nel corto circuito logico del “pensare globale – agire locale” e nell’intrinseca ambiguità dello “sviluppo sostenibile”, pur se – come detto – non menzionato da questa proposta. “Pensare globale e agire locale”, nella decezione insita nel quasi ossimoro dello “sviluppo sostenibile” (sarebbe stato meglio a suo tempo tradurre “sustainable development” in “sviluppo durevole”, come si è fatto in francese con “développement durable”, a rimarcare la durevolezza nel tempo del risultato e ad attenuare il peso del pilastro economico rispetto a quelli ecologico e sociale), ha un significato pratico di enorme impatto: significa la disponibilità del valore del paesaggio a fronte di qualsivoglia intervento asserito di “transizione ecologica”; un effetto materialmente e culturalmente devastante per l’Italia e costituito dal sacrificio, di forme e proporzioni inedite, dei paesaggi italiani; e quale che ne sia il pregio e il valore identitario. Tutto questo in nome di un’asserita e futuribile “decarbonizzazione” e del contrasto del mutamento climatico: come se coprire i terreni agricoli di pannelli fotovoltaici e le dorsali appenniniche di torri eoliche possa davvero comportare un’effettiva incidenza sul riscaldamento globale, visto che l’Europa intera contribuisce al riscaldamento con meno di un decimo delle emissioni globali mentre l’Amazzonia continua a essere bruciata, il PIL della Cina continuerà a crescere con ritmi a due cifre all’anno con effetti evidentemente globali da emissioni di carbonio che dovranno raggiungere il picco tra il 2025 e il 2030, e l’India semplicemente sembra ignorare il problema. Esiste, è il caso di davvero domandarsi, una reale e ragionevole proporzione di prezzo tra il danno elevatissimo che va a subire la configurazione dell’Italia e l’effettivo contributo alla mitigazione del riscaldamento globale che può offrire il sacrificio del suo paesaggio? La risposta negativa è in re ipsa e dovrebbe condurre il Parlamento ad accentuare la prudenza e alzare la guardia di fronte ad una tale temeraria innovazione costituzionale: ad evitare che, per il paesaggio italiano, la “transizione ecologica” si traduca in un costo elevatissimo e insensato, dall’effetto per di più pressoché irrilevante. 

Insomma, si profila con ogni serietà il rischio che la modifica costituzionale possa provocare, quale suo immediato effetto tangibile, quello di subordinare la tutela paesaggistica alla straripante diffusione degli impianti industriali di produzione di energia da fonti rinnovabili: La devoluzione, a quel punto, alle mere logiche di mercato (tolti di mezzo gli orpelli amministrativi della tutela paesistica) li dice destinati a essere realizzati lì dove la proprietà privata è più debole e più facilmente aggredibile, ossia nei terreni agricoli e nelle aree interne. La modifica degli articoli 9 e 41 Cost., senza poter in realtà innovare al bilanciamento e agli equilibri tra i valori costituzionali di tutela dell’ambiente salubre e di iniziativa economica privata, finirebbe così per veicolare senza remore la trasformazione industriale dei paesaggi agrari e appenninici del Paese: un nuovo “interesse tiranno”, capace di facilmente travolgere la tutela paesaggistica che ancora lo conteneva. Sono segnali inequivoci e ben visibili di questa dinamica aggressiva il conflitto, di dimensioni ormai fuori da ogni proporzione, intorno a elefantiaci progetti di parchi fotovoltaici nelle campagne della Tuscia, dove la Regione Lazio ricusa di considerare (come invece richiede la Soprintendenza) l’effetto paesaggistico della sommatoria dei numerosi progetti (ciascuno per decine e decine di ettari di suolo agricolo) presentati in sequenza o in parallelo da più operatori economici; o la recente disciplina semplificatoria inserita nel decreto-legge di semplificazione n. 77 del 2021 (Capo VI, Accelerazione delle procedure per le fonti rinnovabili, artt. 30-32) per limitare i controlli paesaggistici in relazione ai progetti – dichiaratamente attuativi della “transizione ecologica” – per la realizzazione delle suddette tipologie di impianti. 

Si dice: «ma è l’Europa che ce lo chiede». Ma non è così. L’Europa fissa obiettivi strumentali solo percentuali: il regolamento (UE) 2021/1119 del 30 giugno 2021 “che istituisce il quadro per il conseguimento della neutralità climatica” (detto – in accentuazione comunicazionale – “European Climate Law” o “Loi européenne sur le climat”) e il pacchetto “Fit for 55” del 14 luglio 2021 finalizzato a ridurre entro il 2030 le emissioni di gas serra del 55% rispetto al 1990 (in vista della “carbon neutrality” da raggiungere entro il 2050). Però lascia alla responsabilità degli Stati membri di scegliere il mix qualitativo di misure da loro stimate più congrue e opportune a seconda delle caratteristiche del Paese. Siamo noi (per il mezzo dei rappresentanti governativi inviati a negoziare a Bruxelles) che ci siamo accollati impegni e ancor più “ambiziosi obiettivi” che rischiano di sancire l’ulteriore devastazione dei paesaggi italiani e stavolta su vasta scala (“ambizioso”, “ambitious” è un aggettivo che ormai ricorre con la frequenza di un intercalare nei vari documenti, europei e nazionali, nella materia: un aggettivo che la logica giuridica imporrebbe di trattenere quando si formulano testi che vogliano essere davvero normativi, com’è buona regola per le aggettivazioni ridondanti).

In questi termini, occorre prima di tutto precisare cosa davvero, sul versante del paesaggio italiano, deve significare l’ancora troppo impreciso concetto di “transizione ecologica”: la produzione di “energie pulite” non deve infatti comportare lo stravolgimento del volto dei nostri territori (agire locale, ma pensare globale …). Occorre non generare gravi danni collaterali locali, certi e immediati, in una guerra globale dagli esiti futuri e assai complessi (e con gravi difficoltà di partenza, come indica l’indirizzo del contenimento del climate change insito in mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici: i primi due dei sei obiettivi ambientali del fondamentale regolamento (UE) 2020/852 del 18 giugno 2020 sulla tassonomia della finanza sostenibile).

Questa è in realtà l’urgenza, non già la prospettata modifica costituzionale. Ma ahimè nessuna norma viene immaginata per instradare gli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili solo verso il brown field, le tante migliaia di capannoni abbandonati o meno che da tempo hanno devastato la gran parte delle aree e delle conurbazioni di tutta l’Italia. Continua insomma a prevalere la solita, usurata logica degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, per la quale l’agricoltura è di suo un disvalore da cancellare, sicché sono aggrediti in primo luogo e soprattutto i terreni agricoli, dove la proprietà è povera e debole, ma non le coperture dei manufatti delle imprese industriali e commerciali, pur se fallite e in liquidazione.

Se non si impongono questi previi limiti definitori all’attuale latitudine indeterminata della “transizione ecologica”, che ha assorbito la tutela dell’ambiente polarizzandola in senso industriale, è al massimo livello pericolosa l’inedita modifica dei principi fondamentali della Costituzione. Senza un tale previo chiarimento, dopo la modifica costituzionale risulterebbe addirittura coperto costituzionalmente un piano o un programma che decretasse la libera realizzazione di parchi eolici e fotovoltaici, oggi invece esposto a seri e fondati dubbi per contrasto con l’art. 9, secondo comma. Questo, e solo questo, sarebbe il risultato pratico di una così inutile, e soprattutto dannosa, modifica di un principio fondamentale della Costituzione.

Per questi motivi chi ha a cuore il volto amato della Patria, dunque la tutela del paesaggio, non può non essere preoccupato per quest’incauta proposta di modifica del principio fondamentale costituzionale, utile solo a rafforzare il tentativo (in atto sotto l’usbergo degli “ambiziosi” obiettivi di ripresa e resilienza) di spazzar via ogni plausibile e giustificata resistenza al dilagare incontrollato di invasivi impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili.


Articolo pubblicato su giustiziainsieme.it il 22 settembre 2021. Fotografia da Pixabay.

 

 

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