Leonardo Bison
Giovedì 15 luglio, a Verona, l’Aida è andata in scena in forma ridotta, con solo un pianoforte ad accompagnare lo spettacolo: l’80% dei lavoratori della Fondazione Arena aderiva a uno sciopero che per la prima volta vedeva unite tutte le sigle sindacali. Tra i motivi alla base della mobilitazione, la paura che il festival estivo, con lo stesso numero di rappresentazioni del periodo pre-covid ma capienza di posti ridotta, possa mettere a repentaglio i bilanci e quindi i posti di lavoro. Per una Fondazione che nel 2019 fatturava oltre 24 milioni di euro potrebbe sembrare capzioso, eppure il problema è reale, per le fondazioni partecipate che gestiscono patrimonio pubblico, e il caso veronese è solo l’ultimo campanello d’allarme.
Le fondazioni di partecipazione per gestire beni pubblici sono uno strumento ideato venticinque anni fa. Come spiega una delibera della Corte dei Conti datata 22 dicembre 2020, devono il loro successo “anche al contemporaneo intervento legislativo volto a limitare la possibilità per gli enti pubblici territoriali di dar vita o partecipare a forme societarie”. In Italia oggi sono migliaia le fondazioni di diritto privato che gestiscono beni pubblici in ambito culturale, raggruppabili in due categorie principali. Le fondazioni lirico-sinfoniche, create ope legis nel 1996 come trasformazione di 14 teatri lirici statali - il più famoso dei quali è La Scala di Milano - regolati da norme comuni e sostenute dal Fondo Unico per lo Spettacolo, statale. E le fondazioni museali, che hanno visto una crescita in quantità e qualità dal 2004 in poi, anno in cui il Museo Egizio di Torino (statale) viene trasformato in fondazione. Da allora molti musei civici seguono la stessa strada per volere delle amministrazioni, a Venezia come a Brescia, mentre non nascono più musei statali, preferendo la creazione di fondazioni partecipate dallo Stato stesso, come al MAXXI di Roma o al Meis di Ferrara.
Non esiste una legge che regoli la specificità di queste fondazioni culturali tenute a fornire servizi pubblici, che quindi registrano divergenze di statuto e partecipanti, anche nette da caso a caso, sia negli obiettivi sia nel modus operandi. Nonostante questa formula gestionale preveda “un conferimento “tendenzialmente perpetuo” del patrimonio (Corte dei Conti, dicembre 2020), - qualora le cose si mettano male, il recesso di Stato ed enti locali dalla fondazione non prevede la restituzione del patrimonio conferito - questa era una realtà in forte espansione prima del lockdown: la riforma Franceschini datata 2014, ad esempio, era volta a trasformare tutti i maggiori musei statali in fondazioni, ma il Covid ha sparigliato le carte.
Il meccanismo di aumento dei prezzi di biglietti e servizi e contemporaneo abbassamento del costo del lavoro, che unito alla crescita del turismo a livello internazionale aveva garantito in questi decenni numeri in crescita, è saltato nella primavera 2020. Il sistema ora è in crisi: né il ritorno d’immagine per dirigenti e membri del Cda, né l’aumento dei visitatori, né la possibilità di staccare biglietti in gran numero appaiono certi, come confermato dal nuovo obbligo di green pass imposto per musei e teatri, anche all’aperto.
Emblematica la situazione delle fondazioni lirico-sinfoniche, come l’Arena citata in apertura. La loro condizione era già difficilissima prima dell’epidemia, avendo contratto negli anni un debito nei confronti dello Stato di 400 milioni di euro: per questo era stato imposto nel 2013 un percorso di risanamento, iniziato negli anni passati (tagli, spending review e commissariamento in cambio di una ristrutturazione del debito). Non solo, con una legge del 2016 era stato imposto un declassamento da fondazioni lirico-sinfoniche a “semplici” teatri lirici in caso di mancato pareggio di bilancio. A differenza delle fondazioni museali di più recente creazione, che hanno fatto ampio uso delle esternalizzazioni in modo da avere personale dipendente in numeri molto ridotti, le fondazioni lirico-sinfoniche ereditavano tutti i dipendenti statali dei teatri lirici: quei 5 mila lavoratori sono stati messi in cassa integrazione per mesi tra marzo 2020 e oggi, mentre solo pochi dei dipendenti a tempo determinato e collaboratori storici hanno visto rinnovi o stabilizzazioni.
Alla fine del 2019 il debito complessivo era di 139 milioni di euro, sceso a 132 nel giugno 2020: il motivo del calo, come spiega il commissario per il risanamento Gianluca Sole nella sua relazione del 24 novembre scorso, è la condizione legata alla chiusura. Abbattendo i costi di produzione e tenendo i dipendenti in cassa integrazione, le fondazioni hanno un risparmio netto (si calcola oltre un milione di euro in sei mesi per quelle con più di 200 dipendenti): aprire con pubblico contingentato ha costi ben diversi. Come spiegava ancora Sole, per salvarle serve un approccio il più conservativo possibile proponendo “attività a bassissimo rischio, realizzando solo quelle con un’elevatissima probabilità di successo, prossima alla certezza”, con buona pace della qualità.
Ed ecco quindi la paura dei lavoratori della Fondazione Arena. Un ragionamento conservativo non dissimile da quello della Fondazione Musei Civici di Venezia, che questo inverno aveva spiegato di aver messo tutti i dipendenti in cassa integrazione fino ad aprile per risparmiare altri 620 mila euro: oggi a Venezia sono aperti tutti i giorni solo due dei 9 musei gestiti dalla fondazione, gli altri aprono poche ore dal giovedì alla domenica.
Era uno scenario prevedibile. Ancora nella delibera dello scorso 22 dicembre la Corte dei Conti si chiede come si possa “rendere controllabile e giustiziabile nell’interesse pubblico, eventuali scelte amministrative consistite in irragionevoli adesioni a fondazioni di partecipazione”. Oggi, e per gli anni a venire, gli interessi di fondazioni in cui la dirigenza ha vantaggio a garantire un bilancio in ordine per tutelare i propri stipendi, e gli interessi dei cittadini che hanno desiderio non solo di andare al museo o a teatro, ma anche di trovarvi un servizio di qualità e non ridotto al minimo, non saranno sovrapponibili.
Il ministero ha permesso a tutte queste fondazioni chiudere in utile i propri bilanci grazie ad aiuti (nel 2020, 25 milioni per sostegno straordinario alle fondazioni museali partecipate dallo Stato, 60 per le fondazioni liriche), ma non le ha vincolate a offrire determinati servizi e riforme, rischiando di creare le condizioni per chiusure sulla pelle dei più deboli.