Maria Pia Guermandi
A intervalli regolari Pompei e il suo territorio continuano a svelare i loro tesori. A sabato scorso [27 febbraio 2021, n.d.r.] risale la notizia del ritrovamento di un carro cerimoniale riemerso nella villa di Civita Giuliano, a poca distanza dal sito vesuviano.
Nel commentare il ritrovamento, il neoministro della Cultura Dario Franceschini ha dichiarato: “Pompei continua a stupire con le sue scoperte e sarà così ancora per molti anni con venti ettari ancora da scavare. Ma soprattutto dimostra che si può fare valorizzazione, si possono attrarre turisti da tutto il mondo e contemporaneamente si può fare ricerca, formazione e studi, e un giovane direttore come Zuchtriegel valorizzerà questo impegno”.
In poche righe, un programma operativo chiaramente espresso che reca l’eco delle polemiche suscitate dalla nomina del neo direttore del Parco archeologico, recentissima anche se preannunciata da mesi. Polemiche innescate dalle dimissioni di due dei consiglieri del Comitato scientifico di Pompei in disaccordo con la scelta del ministro (al quale, come si sa, è riservata la designazione dei direttori dei musei e siti statali più importanti). Non potendo essere messa in discussione la competenza scientifica dei due consiglieri, fra i maggiori studiosi a livello internazionale di Pompei, la polemica è stata prontamente incanalata su un presunto conflitto giovani (il neo direttore designato)-vecchi (i consiglieri dissidenti) in cui, con sprezzo del ridicolo, è stata persino evocata la querelle dei Anciens et des Modernes e che, su media e social, ha espresso nuovi vertici di un’antica specialità italica: il salto acrobatico sul carro del vincitore.
Ora, al giovane neo direttore è doveroso – prima di tutto per le sorti di un sito così complesso e fragile – augurare un lavoro proficuo, anche se va sottolineato come, assieme alla sua benevolenza, il ministro gli abbia già precostituito il percorso da compiere, in perfetta continuità con il precedente, a base di scoperte sensazionali e flussi turistici in costante aumento. E d’altro canto, meccanismi di selezione come quelli per Pompei, in cui la scelta finale è delegata al rappresentante politico protempore del Ministero, sono costruiti per privilegiare l’affidabilità, o meglio la fedeltà dei prescelti, la cui competenza, molta o poca che sia, finisce gioco-forza per essere penalizzata.
Nessun dubbio, d’altro canto, lasciano le dichiarazioni del ministro che, ben al di là di generici indirizzi di politica culturale, esprimono senza remore un piano d’azione cui il nuovo direttore è chiamato ad adeguarsi: avanti tutta con le scoperte che i “20 ettari ancora da scavare” potranno riservare. Scoperte che, oltre a una visibilità mediatica costantemente rinnovata, potranno influire positivamente sui flussi turistici. Già, l’aumento dei turisti quale misura dell’efficacia dell’attuale stagione politica al Collegio Romano. Obiettivo mai dismesso, neanche in tempi di pandemia, neanche di fronte all’evidenza drammatica – per il patrimonio e per i tanti che lavorano in questo settore – della fragilità e delle distorsioni di un sistema fondato su un inarrestabile aumento del numero dei turisti, delle risorse, degli eventi, dei prodotti culturali da offrire sul mercato.
Per chiudere il cerchio, nel programma del ministro, le scoperte archeologiche sono assimilate tout court alla ricerca, evidenziando così come per i nostri decisori politici il principale obiettivo di quest’ultima sia appunto la scoperta, meglio se sensazionale. Anche a costo di ribaltare quella che ormai da decenni è diventata una strategia unanimemente condivisa sul piano scientifico internazionale, vale a dire la necessità di non scavare più: a Pompei e non solo.
I depositi dei nostri musei e delle nostre Soprintendenze sono ricolmi di materiali che non riusciremo a studiare in tempi ragionevoli, e quindi a interpretare, a rendere leggibili non solo per gli studiosi, ma per tutti coloro cui questo patrimonio appartiene. E uno scavo le cui “scoperte” non vengono studiate, pubblicate, diffuse, è solo un’operazione distruttiva, irrisarcibile. È noto all’intera comunità degli archeologi che anche Pompei soffre di un gravissimo ritardo scientifico in questo senso: le centinaia di domus scavate nei due secoli e mezzo dalla scoperta ad oggi, sono in massima parte non pubblicate, non studiate.
A ciò si aggiunge che, nonostante le risorse non esigue concesse dall’Europa, a seguito dei disastrosi crolli del novembre 2010, le operazioni di restauro, pur condotte con molto impegno, sono ancora ben lontane dall’aver costituito un sistematico piano di manutenzione programmata, che sia applicato non per exempla, ma secondo una strategia complessiva disegnata su priorità scientificamente definite. E moltissimo resta ancora da fare sul piano della trasmissione dei risultati e della fruizione del Parco, come stanno a dimostrare i servizi disponibili nell’area archeologica e le risorse digitali del sito web, a dir poco insufficienti in termini di approfondimento dei contenuti, materiali informativi, strumenti didattici.
Con l’appiattimento sulla “scoperta”, il ministero opera uno spericolato ritorno al passato in perfetto stile neoborbonico. La prima attività di scavo dei Re di Napoli sotto i quali iniziò la riscoperta del sito pompeiano era finalizzata ad obiettivi non così dissimili: recuperare dal sottosuolo tesori che potessero accrescere presso le corti europee il prestigio della corte borbonica e migliorarne l’immagine. La “vecchiaia”, in questa vicenda pompeiana, non sta quindi nell’anagrafe dei protagonisti, quanto piuttosto nella concezione culturale che esprime, attardata e provinciale, ma soprattutto pericolosa e insostenibile per le sorti del patrimonio.
Certo i problemi di Pompei vengono da lontano e molteplici sono le concause: più che di individuare responsabilità, sarebbe opportuno, a questo punto, verificare i modelli di gestione aprendo una discussione allargata sulle strategie e soprattutto su gli obiettivi a cui mirano. Operazione non riservata alla sola comunità scientifica, ma concepita in modo da coinvolgere prima di tutto la comunità che gravita nell’area archeologica. Quella “heritage community” cui la Convenzione di Faro, ratificata pochi mesi fa dall’Italia, assegna un ruolo determinante nella gestione del patrimonio. Gli abusi – edilizi e non – storici e attuali, così come le attività di scavo clandestino mai interrotte dei tombaroli, ci raccontano di un rapporto distorto con il paesaggio e il patrimonio culturale, spesso improntato al mero sfruttamento e, quasi sempre, a una sostanziale estraneità, stigmatizzabile sotto molti profili, ma solo apparentemente distante dallo sfruttamento imposto dalle logiche economiche del turismo.
Una concezione del paesaggio e del patrimonio culturale finalmente aggiornata è proprio da lì che dovrebbe ripartire, cercando di ricucire la frattura mai curata di un patrimonio archeologico distante dalla comunità che lo ha ereditato e coniugando così obiettivi e metodi non solo economici o archeologici, ma sociali e antropologici. Compito non semplice, ma ineludibile se vogliamo finalmente attuare quell’opera di democratizzazione del nostro patrimonio che ne rappresenta il compimento costituzionale oltre che il più efficace strumento di tutela. Come scriveva Andrea Emiliani, “la coscienza del possesso sociale è la sola garanzia valida ad allontanare lo spettro della distruzione”.
Pompei continua a rappresentare un simbolo, quasi perfetto nella sua ambivalenza, dei problemi e assieme delle potenzialità della nostra concezione del patrimonio culturale. Specchio inesorabile delle gerarchie, dei bisogni, dei valori della nostra contemporaneità e, proprio per questo, da “usare” nel miglior modo che le nostre risorse culturali ci consentono.