Rita Paris
Questo incontro [n.d.r. “BENI CULTURALI 2021: Istituti e professioni tra narrazione e realtà”] avviene un anno dopo quello previsto a marzo 2020, nella condizione mutata per la crisi mondiale che ha investito tutti i settori e ha impegnato i governi anche nei processi per mitigare l’impatto sul sistema sociale ed economico che ha messo in evidenza le tante disparità.
Siamo qui con l’auspicio di essere ascoltati, con la volontà di non alimentare polemiche, con l’unico interesse collettivo verso il nostro patrimonio.
Il mondo dei beni culturali, come il resto, ha subito una grave penalizzazione economica, con la chiusura dei musei, mettendo in crisi tutti i settori coinvolti, come la ricettività, il turismo, le professioni e le imprese che operano in questo ambito. Nulla sarà come prima, ci siamo detti, invece, a parte alcuni doverosi ristori, si è andati avanti anche con la terza fase della riforma e si procede per l’attuazione del Recovery fund, senza una verifica sul funzionamento degli Istituti del Ministero.
Si sono ora aggiunti il cambio del governo e la nascita del Ministero della Cultura. Nel discorso alle Camere il Presidente del Consiglio Draghi ha evidenziato i rilevanti impatti sull’occupazione, specialmente quella dei giovani e delle donne e l’aggravamento della povertà; ha espresso attenzione per il settore culturale, per il rischio di perdere un patrimonio che definisce la nostra identità e dunque la necessità di investimenti sul capitale umano e sulle nuove tecnologie. Questa situazione di crisi si è intrecciata con lo stato di disorientamento in cui si trovano tutti gli Istituti periferici del Ministero (Soprintendenze, Musei …) a seguito dei mutamenti rapidi e in successione, avvenuti senza che vi sia stata possibilità di ascolto degli addetti ai lavori.
Il racconto dello stato dei beni culturali è diverso dalla realtà che si sta vivendo. L’ultima riforma, attuata in più fasi, dal 2014 a oggi, ha adottato soluzioni impegnative confezionate a tavolino e applicate dall’alto, senza tenere conto delle istanze culturali e degli aspetti organizzativi delle diverse realtà, per le quali non poteva essere adatta la stessa ricetta. Molto si sarebbe potuto fare per per migliorare l’efficacia della tutela e delle attività atte a promuovere la conoscenza del patrimonio, assicurandone anche le migliori condizioni di utilizzo e fruizione, guardando alle carenze di personale, alla formazione, a una più equa distribuzione delle risorse, allo snellimento delle procedure, all’adattamento del codice dei lavori pubblici alle opere per i beni culturali, alla pianificazione paesaggistica. Riorganizzando, piuttosto che riformare alterando le fondamenta della tutela e della valorizzazione.
Sarebbe ingiusto non riconoscere che si è data una grande visibilità a molti dei luoghi della cultura – addirittura come fossero nati ora – ma questo risultato si sarebbe ottenuto anche promuovendone la crescita attraverso livelli di autonomia scientifica e strumenti di comunicazione, con un direttore incaricato, possibilmente nei ranghi dell’amministrazione, secondo esempi che avevano portato a risultati eccellenti, e ricorrendo all’esterno per casi speciali, mantenendo tuttavia questi luoghi all’interno degli Istituti di pertinenza. Non mi soffermo sulle modalità di selezione dei Direttori dei 40 Istituti autonomi creati dalla riforma.
Per raggiungere questo obiettivo non era necessario disintegrare assetti culturali omogenei che contemplavano la tutela e la gestione dei luoghi della cultura nello stesso Istituto; questa soluzione infatti, nella maggior parte dei casi, ha danneggiato l’una e l’altra azione, cancellando la complementarietà necessaria al migliore sviluppo dei processi conoscitivi. Le tre realtà, Soprintendenze, musei delle Direzioni regionali, Musei autonomi, sentono la mancanza l’uno dell’altro, non si completano nelle attività di tutela, studio e valorizzazione, con conseguenze anche negli aspetti logistici, nel funzionamento di archivi, servizi, laboratori comuni.
Già prima della costituzione del Ministero, la Commissione Franceschini (1966) aveva previsto l’autonomia di musei, siti e monumenti, ma all’interno delle Soprintendenze di riferimento. Tale più logica soluzione avrebbe anche alleggerito il carico burocratico e amministrativo per la moltiplicazione di autonomie che hanno causato problemi per le sedi e il personale scarso e mal distribuito; senza aver stimato la effettiva sostenibilità dell’autonomia per introiti, spazi, logistica.
Il sistema, inoltre, ha costi elevati di gestione e moltissimi Istituti non producono fondi anche per gli interventi conservativi. Il momento, ancora di più, indirizza verso un regime economico di sobrietà e di equilibrio finanziario che tenga conto di entrate e costi dei singoli Istituti, partendo dalle esigenze del patrimonio. Ricondurre molte competenze all’interno di Istituti più grandi, consentirebbe di ottenere migliori risultati per le risorse economiche e professionali, senza sminuire i risultati conseguiti. È ormai evidente, pure in casi come la fondazione Museo Egizio di Torino, che l’istituzione museale va garantita con finanziamenti pubblici e anche privati: il ruolo non si misura con il numero dei biglietti ma con la capacità di fare ricerca ed essere al centro della vita della collettività, con l’obiettivo di una gratuità per tutti.
Occorre rinsaldare il legame inscindibile tra Musei e Territorio e attribuire a tutto il patrimonio culturale il medesimo valore! La riunificazione tra Soprintendenze e musei delle Direzioni Regionali potrebbe essere attuata con facilità, recuperando anche figure di dirigenti, lasciando ai musei i singoli direttori, risolvendo numerosi dei problemi esistenti.
Come dichiarato anche nel documento del Consiglio Superiore di dicembre 2020 le gravi carenze di organico investono tutti gli uffici e tutte le categorie. La direzione di numerosi Istituti in tutto il paese (in particolare Soprintendenze e Direzioni regionali musei) è oggi assegnata con incarichi a tempo, o con comma 6, mentre è necessario assicurare stabilità per lo svolgimento di compiti di elevata responsabilità, secondo una pianificazione a più lungo termine, attraverso concorsi da attivare anche con procedure più snelle e decentrate.
Si è affermato che è stata rafforzata la tutela con l’aumento del numero delle Soprintendenze (unificate), ma tale deliberazione porterà, al contrario, ulteriori gravi disagi organizzativi per questi uffici condannati a tentare di redistribuire il personale che è sempre lo stesso, individuare altre sedi, modificare per l’ennesima volta le procedure di funzionamento.
Sull’operazione è stato ottenuto un consenso ampio mettendo in ombra le odiate Soprintendenze e mortificando i professionisti interni, quasi mai idonei a ricoprire ruoli di direttori degli Istituti autonomi, privati di fatto di opportunità di carriera e di crescita professionale all’interno di strutture molto circoscritte, lasciando credere che i musei prima fossero quasi inesistenti o accessibili solo agli addetti ai lavori, magnificando l’incremento del numero dei visitatori, vero solo in pochissimi casi, senza elaborare soluzioni per migliorare l’accessibilità e la fruizione nelle situazioni più difficili.
È assente ogni forma di attenzione speciale che doveva essere riservata al ruolo tecnico scientifico, per il quale programmare anche una formazione costante prevista nelle proposte più illuminate dei decenni passati. Nella rivista “Dialoghi d’Archeologia” creata da Ranuccio Bianchi Bandinelli nel 1972 (V,1) si dichiara «la necessità di dare all’amministrazione strutture moderne e democratiche, di restituire ai funzionari scientifici la dignità di studiosi, sollevandoli dalla grottesca situazione di esercito della salvezza sparuto e sprovveduto, posto di fronte a un compito che non si desidera veramente venga eseguito, di affrontare e risolvere i problemi relativi alla qualificazione e alle carriere di tutto il personale». Con questo spirito è nato il Ministero per i beni culturali.
Concludo accennando solo al persistente problema della disoccupazione per tanti professionisti, ora riconosciuti da una legge, che dovrebbero trovare una occupazione stabile nel settore, il cui stato, invece, è peggiorato dalle ultime riforme.
E una considerazione amara su come il sistema abbia determinato una discriminazione tra istituti ricchi e istituti in grave indigenza che spesso non riescono a provvedere neppure alle opere conservative e a un dignitoso funzionamento; tra ruoli dirigenziali ben remunerati e professionisti interni con retribuzioni umilianti, mentre i professionisti esterni sono costretti ad abbandonare il campo, trattati senza rispetto.
Vorremmo che la gestione del patrimonio culturale rispondesse a regole democratiche e giuste.