Insegnamento a distanza, come “stare in cattedra”

di Tomaso Montanari

Chiudere all’improvviso le scuole e le università è stato uno choc. Il primo istinto è stato superare il trauma continuando le lezioni a distanza: in qualunque modo, pur di mandare un segnale di vita. Per sottolineare questo significato, molte istituzioni (come la mia Università per Stranieri di Siena) hanno promosso lezioni aperte a tutti, trasmesse sui canali youtube: e le grandi aule vuote dove il professore parla alle telecamere sono simbolo eloquente di una situazione che fino a ieri non avremmo mai pensato di dover vivere.
Con il passare delle settimane, tuttavia, appaiono sempre più chiari i limiti e i rischi della didattica a distanza: è urgente l’avvio di una riflessione, che in buona parte vale sia per la scuola che per l’università.

Le criticità più ovvie sono quelle relative all’inadeguatezza tecnologica del sistema dell’istruzione. La moltiplicazione delle piattaforme di ogni tipo, il volenteroso quanto caotico fai-da-te di molti docenti, la mancanza di coordinamento e preparazione ha gettato nel panico le giornate, già tese, di docenti, allievi e genitori in tutta Italia. Ma si tratta di carenze che possono essere sanate, se non nel cuore dell’emergenza almeno in un futuro prossimo, con investimenti adeguati in termini di tecnologia e di preparazione ad usarla.

Forse meno evidenti, ma più serie e certo meno risolvibili, sono le criticità sociali che vanno emergendo. Tra le sue funzioni più importanti, la scuola ha quella di rendere eguali ragazzi mai come oggi invece diseguali: per questo, più la modalità di apprendimento si sbilancia verso il tempo a casa (con cumuli di compiti, per esempio), meno la scuola fa il suo dovere costituzionale. Facile immaginare cosa succeda quando si è costretti a spostare tutto a casa. Succede che ci sono famiglie senza una rete decente, famiglie che non possono assicurare un tablet o un pc a figlio (specie se i genitori lavorano a distanza, come ora accade spessissimo), che non possono stampare schede e esercizi. O case che non possono garantire ai ragazzi uno spazio che assomigli, almeno di lontano a quello, libero e indipendente dal resto della famiglia, della scuola. E poi ci sono genitori che aiutano i figli più piccoli a consultare registri, scaricare schede e caricare compiti: ma ci sono anche quelli che non possono, non sanno o non vogliono farlo. Insomma, la didattica a distanza fa parti eguali tra chi è diseguale, e questa – come ha scritto don Milani – è la più grande delle ingiustizie.

Oltre tutto questo, c’è poi un problema più profondo, e un rischio più grande, che riguarda tutti i gradi dell’istruzione, ma è più tangibile via via che si sale verso l’università. Ed è la tentazione di pensare che in fondo la didattica online sia del tutto equivalente a quella vera, e che anzi sia preferibile. L’affermazione delle università telematiche (che ho sempre considerato un’aberrazione, una contraddizione in termini: come musei solo virtuali, sesso solo on line, cucina solo in tv…) sta di fronte a noi come un monito: non è che dopo il coronavirus si alzerà qualcuno a dire: “Perché non continuiamo sempre così?” Non sembri una paranoia da recluso: in molti dipartimenti (quelli a più alta densità di professori che esercitano una professione, come per esempio i giuristi) la spinta c’è da molto tempo, ed è sulla didattica a distanza che vengono istradate molte risorse premiali.

Ed è un errore, grave. Perché la scuola e l’università sono comunità: e hanno senso solo se lo rimangono, e non si riducono a somme di solitudini. La loro funzione non è rovesciare contenuti nella testa di uno studente (magari usando lo schermo del tablet come un imbuto), non è preparare ad una professione né rilasciare un titolo né valutare gli studenti: ma è quella di insegnare il pensiero critico. E dunque in un momento in cui ogni famiglia italiana è necessariamente, quanto istericamente, connessa alla rete (per informarsi, per distrarsi con serie e film, per comunicare con amici e parenti…), la scuola e l’università forse farebbero meglio a scegliere la strada della decompressione tecnologica e della liberazione mentale. Liberare dalla gabbia della individualità, invece che contribuire a consolidarla.

Il mio amico Guido, monaco di Bose, ha lodato su twitter la saggezza di una bambina di 9 anni che ha detto ai genitori: “Perché invece di vedere la messa in tv non leggiamo la Bibbia?”. Ecco: noi professori delle scuole e dell’università, invece di tenere connessi per ore i nostri allievi, avremmo potuto prescrivere loro un libro al mese per ogni materia (ordinabili via web: e non necessariamente da Amazon, ma anche dalle eroiche librerie reali connesse al portale Abebooks, per esempio), chiedendo di leggerli e poi di scrivere (in un tempo ragionevole) delle recensioni articolate, che noi avremmo corretto e rispedito. Sarebbe stato (e può ancora essere) un modo diverso di essere comunità, seppure a distanza: senza prenderci in giro su tecnologie inesistenti, senza metterci ancora più in tensione, senza mimare efficientismi aziendali. E anzi insegnando la cosa più preziosa: che anche mentre fuori tutto sembra crollare, i libri rimangono lo strumento più potente per stare in dialogo e per far presa sulla realtà. Per non smarrirci, e per rimanere vigili e critici sul mondo: in attesa di tornare ad incontrarci in corpo e anima, condizione indispensabile per ogni scuola che voglia essere umana.


Articolo pubblicato in “Il Fatto Quotidiano”, 23 marzo 2020

Foto di Wokandapix da Pixabay

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