Battista Sangineto, Mi hanno rubato il paesaggio e so chi è stato

Una domenica sera sono tornato dalla mia casa di famiglia, affacciata sulla costa tirrenica calabrese, con la sensazione che mi avessero portato via una cosa alla quale tenevo, ma che non ero in grado di ricordare e di descrivere con esattezza. Doveva essere una di quelle cose

che non si usano quasi mai, ma che sai che esistono e che stanno, da sempre, in quello stesso posto dove le hai lasciate l’ultima volta che ne hai avuto bisogno.  La sensazione s’è tramutata, man mano che passavano le ore e i giorni, in una convinzione profonda che mi procurava un sottile, tagliente senso di angoscia che nessuna delle normali occupazioni riusciva non solo a rimuovere, ma neanche a lenire.  Oggi ho, finalmente, capito cos’era: era scomparso il paesaggio, il paesaggio dei miei ricordi infantili e adolescenziali; erano scomparse le montagne ed i promontori coperti da orrendo e inutile cemento armato; era scomparso il mare che, bambino, vedevo dal terzo o quarto tornante della vecchia strada che, negli anni ’60, si doveva percorrere, dalla città, per arrivare sulla costa. Quel mare che prometteva lunghe, assolate, libere giornate di vacanza e di gioia pura trascorse a giocare su spiagge enormi fatte prima di sabbia finissima e poi, via via che ci si avvicinava alla battigia, di sassolini sempre più grandi a testimonianza, geologica, dell’infrangersi e del ritrarsi delle onde nel corso dei millenni. L’acqua era d’un blu venato del verde scuro dei monti dell’Appennino che, incombenti, si specchiavano nel mare e dalla spiaggia si vedevano solo il paese adagiato su un basso promontorio e, lontane, le poche case costruite sulla costa.

Quell’angoscia che sentivo era, dunque, di quel particolare tipo che Ernesto De Martino chiamava “angoscia territoriale” che altro non è che il disagio, la vertigine, l’angoscia, appunto, di chi è sottratto ai propri punti di riferimento nativi o, peggio, di intimo rifiuto estetico di questi ultimi. È esattamente quel che mi accade e che credo accada a molti di quanti stanno leggendo: la scomparsa dei paesaggi e del mare ha scardinato i nessi fisici ed emotivi che ognuno di noi aveva con quei luoghi. Era questa, dunque, la sensazione che ho provato in questi ultimi giorni: mi avevano sottratto quei luoghi, quelle montagne precipiti sul mare, quella spiaggia. Sono stati cancellati, cementificati, dalla mano dell’uomo negli ultimi decenni compromettendo la stabilità degli spazi geografici e dei paesaggi che garantisce alle società un senso di perpetuità in grado di conservare la memoria individuale e quella collettiva, l’identità. Una percezione di perennità data dallo spazio geografico che, secondo Halbwacks, è la sola dimensione capace di permanere, perché i luoghi, di solito, cambiano più lentamente degli uomini che li abitano. In Calabria, nel tempo brevissimo di trenta o quaranta anni, i territori sono stati, invece, letteralmente stravolti, annientati, cementificati, inquinati e, persino, contaminati. Una ricerca, commissionata alcuni anni fa dalla Regione all’Università di Reggio Calabria, ha certificato che c’è un abuso edilizio ogni 135 metri dei circa 800 km di costa calabrese, ora, ormai, uno ogni 100 metri. Una recente indagine della magistratura ha appurato che tutti i depuratori delle città o dei paesi calabresi non funzionano o sono insufficienti alla bisogna.  Il mare non solo è, come è evidente a chiunque non sia il sindaco di un paese marittimo, indicibilmente sporco e inquinato, ma, temo, anche contaminato, forse radioattivo. Se così non fosse perché non affidare ad un Ente di ricerca indipendente, che non abbia nulla a che vedere con la Calabria, un’indagine conoscitiva a tappeto delle acque di tutte le coste calabresi? Perché ci si è fidati, o si è fatto finta di fidarsi, di frettolose esplorazioni ministeriali che soddisfacevano sia il Governo centrale, non troppo interessato alla vicenda, sia le amministrazioni locali che, invece, hanno il terrore di compromettere le stagioni turistiche? Perché non dare seguito alle ricerche e alle indagini sul mare calabrese con tutto il carico di dubbi e di perplessità coraggiosamente manifestate, da alcuni anni, da questo giornale?

Ho scritto tante volte che la responsabilità non è solo, però, delle Amministrazioni e della classe dirigente politica, ma anche dei calabresi che hanno devastato e devastano queste terre disseminandole di orribili edifici non-finiti con una totale assenza di civismo e con la consapevolezza di rimanere impuniti, perché c’è sempre un condono alle viste. Stupisce leggere che, addirittura, c’è qualcuno che non solo assolve questi comportamenti illeciti con la trita, e non più sopportabile, giustificazione dell’edilizia di necessità, ma, addirittura, attribuisce ai responsabili una consapevole e diffusa volontà di resistenza alla cultura dominante, che imporrebbe il rispetto dei luoghi e dei paesaggi, alla quale essi, indomiti abitanti di questa terra, si sono orgogliosamente opposti colando fiero cemento calabro.

Mi sia consentito di dire, tuttavia, che la responsabilità maggiore della scomparsa del paesaggio ricade sulle spalle di tutti gli Amministratori comunali, provinciali e regionali che hanno governato e che erano tenuti a far rispettare le leggi, anche per mezzo della persuasione culturale, ma che, ora, debbono intervenire con durezza prima che avvenga l’irreparabile. Finché siete ancora in tempo -ammesso che ve ne sia, di tempo-  non lasciate che scompaia tutto, non permettete più che il mare, le colline, i boschi, le montagne, i centri storici vengano inghiottiti dal nulla, non tollerate più che le nostre campagne e le nostre coste assomiglino ad una sconfinata periferia anonima e spaesante di una inesistente città. Gli Amministratori della cosa pubblica -il Presidente Oliverio per primo, dato che non ha approntato il Piano paesaggistico regionale come da D.L. del 22.01.2004, n. 42 ai sensi dell’art. 10 della legge 6.07.2002, n. 137- abbiano un sussulto di orgoglio e di amore per la natura e la cultura di questa regione, perché, finora, non l’hanno avuto.

 

Il Quotidiano del Sud

27 luglio 2019

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