La resistenza creativa che ci aspetta

Tomaso Montanari

Credo molto che in questa fase di deserto politico sia importante lavorare sul senso comune, sul linguaggio, sulle parole, per offrire, per condividere, ciascuno come può, degli strumenti di liberazione. È il momento delle idee, della costruzione di strumenti, per un tempo in cui spero li si potrà usare collettivamente, cosa che ora non avviene facilmente. Resistenza creativa, costruzione di comunità, di nessi. E anche laddove i risultati non si vedono (anche perché il vento che soffia è travolgente, e riguarda l’intero Occidente) queste battaglie, quelle combattute e quelle che si possono combattere, hanno comunque salvato e salvano delle coscienze, delle persone, dei gruppi.

Hanno offerto degli strumenti di resistenza, hanno conservato umane delle persone. E questa è una cosa che nessuno ci può portare via. E, in questo, il patrimonio culturale è davvero qualcosa che salva. Come nel famoso verso di Hölderlin tanto caro ai filosofi tedeschi, che dice che “là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”. Il patrimonio culturale è un luogo dove entrambe le cose sono presenti e vicinissime: c’è il pericolo ma anche ciò che può salvare. Nella Costituzione si dice che il fine ultimo, il più alto, è “il pieno sviluppo della persona umana”.

Ci si chiede spesso come si fa a soddisfare i bisogni attraverso il patrimonio culturale; come si giudica la qualità, l’orientamento di una politica culturale. Io credo che l’unico metro sia quello: “Il pieno sviluppo della persona umana”, non (e cito Simone Weil) la persona astratta, ma colui che incontro per strada, che ha quelle gambe, quelle braccia, quegli occhi, che ha pensieri che probabilmente non condivido, ma che è l’unica cosa per la quale vale la pena di lavorare. E quindi non solo una persona calata nel tempo e nella storia, ma proprio quel corpo.

Questo non lo dobbiamo mai dimenticare, in un’epoca dominata dal virtuale: il patrimonio culturale è lo spazio pubblico, e ha a che fare con i corpi. Una delle cose che abbiamo capito durante la pandemia da Covid-19 è quanto ci mancava la piazza, la possibilità di essere corpi accanto ad altri corpi in uno spazio comune, monumentale, pubblico, bello: ci potevamo andare fuggevolmente come singoli, ma non come comunità. C’è molto da fare, le cose sono andate peggiorando, ma è anche vero che è sempre più evidente che questo sistema non si regge più. Credo che la guerra sia uno dei sintomi di questo. Lo diceva ai suoi tempi Rosa Luxemburg: finito il colonialismo, il capitalismo si potrebbe avvitare in una serie di guerre infinite, che hanno lo scopo di tenere in piedi il sistema. In questa congiuntura, la cosa che davvero dobbiamo fare è coltivare la nostra umanità. Il discorso di Voltaire sulla giustizia e sull’uomo che coltiva il suo giardino non va inteso come un rifugio nel privato, ma capendo che coltivare la propria interiorità serve a costruire una collettività capace, per quanto piccola all’interno della società più grande, che abbia una consapevolezza e una capacità di resistenza.

Il successo si misura sulla nostra capacità, alla fine, di rimanere umani o di ridiventarlo. Sarà certo difficile bloccare svendite e privatizzazioni del patrimonio culturale; bisogna lottare per farlo ma anche creare pratiche per esercitare il nostro diritto di vivere in quel patrimonio rimanendo umani, cioè con delle contropratiche che non siano solo di lotta e di denuncia, ma che siano delle pratiche alternative di vita dentro questo patrimonio. Pratiche di amore e di felicità.


Tratto da Altreconomia 252 – ottobre 2022. Immagine di copertina da openclipart.org (particolare).

 

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