Maria Pia Guermandi
Salutata in Italia, da gran parte degli addetti al settore, come un successo, la nuova definizione di museo approvata da ICOM il 24 agosto scorso, ha soprattutto ottenuto il risultato di riportare una unità, almeno di facciata, all’interno della più importante organizzazione non governativa che riunisce operatori museali di tutto il mondo, ancora scossa dopo la frattura provocata dalla definizione, presentata, ma non approvata, a Kyoto, nel 2019.
Quest’ultima versione votata pochi giorni orsono, aggiorna quella del 2007, ma al di là delle principali novità lessicali nei richiami all’accessibilità, inclusività e sostenibilità, mantiene di fatto lo stesso impianto di quella in vigore sino a questo momento che, con qualche aggiustamento, deve la sua genesi agli anni ’70 e avrebbe avuto quindi bisogno di ben altra capacità di rinnovamento.
Dopo le violente discussioni e le fratture determinate dalla proposta di Kyoto era per buona parte inevitabile che si mirasse ad una soluzione di compromesso e, come spesso accade, ciò significa, di fatto, abbassare il livello di radicalità e di innovazione e accontentarsi, nel nome dell’unità (parola chiave di questo processo di approvazione), di un modesto ampliamento lessicale. Aggiornamento dal sentore gattopardesco che paga il suo tributo ai mantra immancabili di inclusione, diversità e persino a quel concetto di sostenibilità ormai ritenuto distorsivo e pericoloso dalla maggioranza degli studiosi, ambientalisti e non.
Dietro i problemi terminologici si nascondono, in realtà, questioni di altro livello: appartenere allo status di museo significa rientrare in elenchi ufficiali, possedere status legali, avere accesso a bandi e fondi. È quanto accade in Italia, dove la definizione ICOM è stata addirittura inserita nella legislazione statale e il Comitato nazionale ICOM ha fornito costante sostegno alla riorganizzazione di Franceschini che dal 2014 ha operato una serie di modifiche alla gestione dei musei, sulle quali si attende ancora un serio monitoraggio sul piano culturale e organizzativo.
Eppure, rispetto ai 104.000 musei nel mondo censiti dall’ultimo report UNESCO, ICOM rappresenta una minoranza di istituzioni e professionisti e soprattutto sconta i problemi di distorsione derivati da un impianto culturale a trazione occidentale in cui, come dimostra anche la vicenda esemplare della definizione di museo, altre tradizioni culturali sono da sempre fortemente sottorappresentate. Non per caso. Il museo, inventato nell’Italia rinascimentale, fu poi definitivamente istituzionalizzato nell’800 positivista al servizio dei nazionalismi europei e, pressoché contemporaneamente, del colonialismo occidentale allargatosi, fino ai primi decenni del XX secolo, a dominare la maggior parte delle terre abitate del globo.
In questo senso il museo ha rappresentato, affermato e consolidato, nelle metropoli e nelle rispettive colonie, sul piano culturale e antropologico, l’idea di supremazia dell’Occidente su cui si è retto il dominio dell’uomo bianco al di là dei confini geografici nazionali, ma anche di quelli temporali. Il rinnovato successo planetario del museo nel terzo millennio e in tempi postpandemici, ci parla ancora, a livelli diversi e talora abilmente camuffati, di un perdurante fenomeno di neocolonialismo culturale perseguito con uno strumento tuttora di straordinaria efficacia.
La vicenda della nuova definizione di museo è per questo spia di un processo che riguarda la funzione del museo come strumento di egemonia culturale nel mondo globalizzato.
Nell’indubbio arretramento segnato dall’ultima definizione rispetto alla proposta di Kyoto (v. Guermandi su “Left” 3 luglio 2020), si può leggere allora il tentativo, sul piano culturale, di puntellare posizioni di supremazia acquisite nel tempo, ma che non rappresentano più, di fatto, una realtà multiforme in cui trovano sempre maggiore spazio proposte e ricerche innovative sperimentate in altri paesi del mondo, a partire dal Sudamerica, patria dei movimenti decoloniali, e dai paesi oceanici.
La definizione di Kyoto fu “congelata”, seppur da una minoranza di Comitati nazionali (occidentali, Francia e Italia in testa) perché ritenuta, con atteggiamento dal retrogusto qualunquista, troppo “politica” o addirittura, vade retro, ideologica, disconoscendo decenni di analisi sul valore e uso politico del museo, come di tutto il patrimonio culturale.
Se le inerzie occidentali ci parlano di una continuità di atteggiamento immutata nei suoi assiomi proprietari e ci rinviano a una funzione ancora pienamente coloniale di un’istituzione concepita oltre due secoli orsono come vetrina di potere sul piano della competizione globale, è ad altri luoghi e ad altre situazioni che possiamo e dobbiamo guardare per trovare esempi di un concetto alternativo.
Di un museo, quindi, non più come istituzione garante di un’interpretazione unilaterale del patrimonio culturale, come ancora risulta dalla nuova definizione ICOM, ma luogo del confronto, nel quale si accettano quelle prospettive e storie che sinora non hanno trovato voce, se non temporanea ed episodica.
E ancora luogo e strumento in grado di intervenire sui grandi temi del presente, due su tutti, fra loro strettamente interconnessi: giustizia sociale e giustizia ambientale.
Su queste sfide che si riconnettono direttamente alla costruzione di una nuova idea di cittadinanza, si è concentrata, d’altronde, la così detta seconda ondata epistemologica della museologia, nella quale l’attenzione è spostata dalle istituzioni al pubblico, non più solo passivo ricettore dell’autorità espressa dalla narrazione museale, ma sempre più coautore singolo o collettivo di nuovi significati.
In gioco è, quindi, la capacità del museo non solo di rappresentare i problemi contemporanei, ma di diventare protagonista della loro risoluzione e quindi del cambiamento rispetto ad uno status quo sempre più conflittuale e in precario equilibrio.
Museo come strumento pienamente politico, quindi, come è d’altronde sempre stato, ma in cui questo ruolo è ora declinato in modo più trasparente, esplicito e consapevole delle molteplici interrelazioni che legano il museo, i suoi operatori interni, le loro pratiche, al mondo esterno: dal pubblico agli sponsor, dai referenti politici e amministrativi, alle reti professionali, ai gruppi di pressione e ai non-visitatori, anch’essi parte di questa rete di infiniti rimandi.
È l’abbandono di un concetto del sapere monodirezionale quale è di fatto quello tuttora esercitato da gran parte delle istituzioni museali: approccio che non significa la mortificazione dei saperi tecnico-scientifici in campo museale, quanto piuttosto la loro ridefinizione verso obiettivi sociali e culturali di ben maggiore portata.
Concetti diversi di museo continueranno a coesistere perché funzionali a obiettivi diversi e talora contrastanti: l’alternativa in gioco, in qualche modo irriducibile, era ed è fra una funzione del museo incardinata in un sistema di società neoliberale e consumistica, nella quale il consumo culturale è destinato a diventare fattore economico sempre più importante e quella di un museo come attore − agent − del cambiamento non più solo testimone dell’esistente, ma motore attivo di discussione e anche di conflitto. E assieme strumento privilegiato per costruire una società finalmente pluralista e multiculturale: l’unica che possa pienamente definirsi democratica.
Un museo “attivista”, come è stato definito, che, attraverso il pieno coinvolgimento delle comunità, va ben oltre le funzioni conservative, documentali e educative tradizionali.
Sempre più periferica rispetto a questi dibattiti cruciali, l’Italia appare, al contrario, confinata in una bolla provinciale di autoproclamata eccellenza, e continua a giocare la sua partita sul piano della competizione globale affidandosi a retoriche della “bellezza” sempre più stantie.
Lo stesso ricorso alle tecnologie digitali è stato sinora interpretato semplicisticamente come scorciatoia per superare evidenti ritardi dei nostri musei rispetto a molte altre tradizioni culturali, mentre una reale innovazione può essere introdotta solo dopo aver ridiscusso in profondità lo statuto delle nostre istituzioni e il loro rapporto con la società.
Il museo che vorremmo, quindi, in virtù di un ruolo pienamente e apertamente politico, dovrà, soprattutto, essere in grado di rinegoziare sistematicamente i propri obiettivi: non vanno “rinnovati” solo allestimenti o collezioni, quindi, ma piuttosto valori e significati e, in una parola, la propria funzione.
Perché i valori e i significati incarnati nel patrimonio culturale non sono oggettivi, ma storicamente, culturalmente, socialmente determinati e per conseguenza suscettibili di mutamenti ed evoluzioni nello spazio e nel tempo.
Ciò che, oltre al resto, rende la “nuova” definizione di museo di ICOM non adeguata è, infine una distorsione profonda, non solo metodologica, ma epistemologica: sebbene vi si parli di “partecipazione” e sebbene se ne sia glorificato il processo democratico di elaborazione, la definizione rimane il frutto di una cerchia, tutto sommato numericamente modesta, di operatori professionali e non ha mai tenuto conto e neanche previsto, il confronto con le comunità, vale a dire con i visitatori, insomma i primi utenti del museo stesso. Dimostrando, con questo spettacolare corto circuito, quanta strada, al contrario, debba ancora essere fatta per ribaltare una concezione monocratica radicalmente inefficace a confrontarsi con le sfide della contemporaneità.
L’apertura, non solo cosmetica, come è invece avvenuto in troppi processi “partecipativi”, alla diversità dei saperi, delle storie, delle tradizioni culturali è, al contrario, la direzione su cui investire energie politiche, per arrivare a costruire musei come luoghi di esercizio della democrazia e costruzione di una cittadinanza non nazionale, ma universale. Come Costituzione comanda.
Articolo pubblicato su “Left” n. 30/2022. Fotografia di jaime.silva da Flickr.
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