Galleria degli orrori. I beni artistici fanno lo spot agli sponsor

Leonardo Bison

Per mesi e mesi, tra il 2020 e il 2021, la facciata della chiesa di san Moisé, a Venezia, a pochi passi da piazza San Marco, era coperta da un enorme pannello bianco, vuoto. I sei fari posti a illuminare il pannello, spenti. Poi, quando nell’estate 2021 nella città lagunare sono tornati i turisti, quel pannello è stato ricoperto dall’enorme rappresentazione di un gruppo di celebrità che mangiavano una pizza intorno a un divano per promuovere una compagnia telefonica.

Sui social network da giorni rimbalzano le foto dell’ospedale degli Innocenti di Brunelleschi, o del Ponte Vecchio, su cui vengono proiettati, a ripetizione, i loghi o il nome della carta di credito American Express associati alla scritta “main sponsor ”o “sponsored by”: foto scattate durante lo spettacolo di luci gentilmente offerto, l’8 gennaio scorso, dal Comune di Firenze “con il contributo della Camera di Commercio, Terna, American Express, Unicoop e Euroambiente Green solutions”: due di questi hanno chiesto e ottenuto la proiezione dei loro marchi al termine dello spettacolo, su alcuni dei monumenti più noti della città e, di converso, del mondo. “Sfruttamento ignobile dei monumenti” l’ha definita la consigliera di opposizione Antonella Bundu.

Sono solo due esempi di ciò che non sta andando nel modo in cui il nostro Paese, il più attrattivo e noto al mondo per quanto riguarda il patrimonio culturale, gestisce le sponsorizzazioni legate a questo stesso patrimonio. Le norme al riguardo sarebbero in realtà semplici, ancorché non scevre da critiche. Secondo il Codice dei Beni culturali promulgato nel 2004, “è sponsorizzazione di beni culturali ogni contributo, anche in beni o servizi, erogato per la progettazione o l’attuazione di iniziative in ordine alla tutela ovvero alla valorizzazione del patrimonio culturale, con lo scopo di promuovere il nome, il marchio, l’immagine, l’attività o il prodotto dell’attività del soggetto erogante” e “la promozione avviene attraverso l’associazione del nome, del marchio, dell’immagine, dell’attività o del prodotto all’iniziativa oggetto del contributo”. Si sceglieva allora di superare il tradizionale sistema delle erogazioni liberali e del mecenatismo – sistema in cui il mecenate spende per un desiderio di auto-rappresentazione – a favore di una sponsorizzazione sullo stile di quelle sportive, con associazione diretta del marchio al monumento, con pochi paragoni in Europa. Che questo accadesse nel Paese in cui è maggiore la voglia di associare marchi a monumenti – data la notorietà degli stessi – è parte della spiegazione ma anche del problema.

In realtà il Codice specificava anche che “la verifica della compatibilità di dette iniziative con le esigenze della tutela è effettuata dal ministero” e che queste devono avvenire “in forme compatibili con il carattere artistico o storico, l’aspetto e il decoro del bene culturale da tutelare o valorizzare”. Ma la prassi ha preso altre vie. I pannelli che devono coprire il bene in restauro, mostrandone l’aspetto e lasciando uno spazio allo sponsor, negli anni si sono trasformati in pannelli pubblicitari che lasciano intravedere appena il monumento sottostante, in particolare nelle città caratterizzate da importanti flussi turistici, come Firenze, Napoli, Roma o Venezia, in cui la cittadinanza si è abituata a vedere enormi pubblicità di telefoni o intimo addossate a chiese e palazzi storici. Il restauro del Colosseo ha permesso a Tod’s di ottenere l’uso esclusivo del monumento per il suo marchio per 15 anni, una scelta che ha portato la Corte dei Conti nel 2016 a sollevare rilievi sull’entità dell’accordo. Renzo Rosso sul Ponte di Rialto a Venezia ha recentemente ottenuto, oltre ai pannelli pubblicitari ben visibili per oltre un anno, una targa in metallo a imperitura memoria, sulla falsa riga delle antiche targhe papali (avulse dalla città veneta). Eppure le sponsorizzazioni culturali, oltre a donare visibilità, garantiscono importanti benefici fiscali, e parrebbe necessario considerare quanta pubblicità possa essere garantita in base alla cifra investita.

Gli spettacoli di luci portano la sponsorizzazione a un altro livello: quello dei servizi, che costano molto meno di un restauro, sono meno invasivi ma permettono di ottenere comunque un’associazione del marchio al monumento. Un gran colpo se si tratta di luoghi celeberrimi.

Un trend che non si limita ai giochi di luci: American Express, ad esempio, si è offerta di sponsorizzare il nuovo portale del Museo Nazionale Romano con una spesa di 40 mila euro. Per legge il contratto di sponsorizzazione è soggetto “alla previa pubblicazione sul sito internet della stazione appaltante, per almeno trenta giorni, di apposito avviso, con il quale si rende nota la ricerca di sponsor per specifici interventi, ovvero si comunica l’avvenuto ricevimento di una proposta di sponsorizzazione, indicando sinteticamente il contenuto del contratto proposto”. E il Museo Nazionale Romano ha comunicato il fatto il 23 dicembre, ma il contenuto del contratto proposto non c’è, come capita spesso in questi avvisi: si comunica ciò che lo sponsor si impegna a fare, ma non la visibilità che il marchio avrà e per quanto a lungo. E così la cittadinanza lo scopre solo a giochi fatti e contratto firmato, finendo per avere come unica arma la denuncia a posteriori.


Articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il 13 gennaio 2022. Fotografia di Ilaria Agostini.

 

 

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