Donne da bandire, lavoratori schiavi: l’Italia dei Gattopardi

Tomaso Montanari

Il prossimo 18 novembre avrei dovuto presentare il mio ultimo libro al Centro Pecci di Prato: ma non lo farò, per protesta. Poche settimane fa, infatti, il cda del museo (presieduto dal banchiere Lorenzo Bini Smaghi) ha licenziato in tronco l’ottima direttrice Cristiana Perrella, accusandola di non saper “trovare le risorse economiche per realizzare programmi ambiziosi all’altezza del Pecci”. Tralasciamo il dettaglio per cui in una fondazione culturale è semmai il cda, e in particolare il suo presidente, a dover trovare i fondi, e concentriamoci sull’invasione del campo tecnico e culturale da parte di un economista. Il quale voleva “programmi ambiziosi”, e cioè grandi mostre scollegate dal territorio – e, chissà, magari invece collegate alle grandi gallerie che dominano il mercato dell’arte, e i cui facoltosi (quanto mediamente ignoranti) clienti popolano guarda caso i cda delle fondazioni culturali. È, questa, una storia esemplare: un’altra donna (dopo Domenica Primerano direttamente sostituita da un economista alla guida del Museo Diocesano di Trento!) in posizione apicale in una istituzione culturale viene brutalmente cacciata da una piramide maschile (il cda del Pecci è composto da soli uomini, tranne una rappresentante della famiglia del fondatore che ne fa parte in forza di una erogazione liberale).

L’espulsione delle donne è un segnale preciso: il sistema riprende il controllo eliminando quell’attitudine allo scarto di lato che è la dote più preziosa (e più temuta) dei marginali rispetto al modello dominante. E, in un sistema saldamente maschile e maschilista, le donne sono e restano marginali. Normalizzazione, controllo, repressione: è questa la chiave, una chiave che aiuta a comprendere dinamiche più larghe del mondo del lavoro culturale, come quella della sempre più decisa precarizzazione.

Il Ministero della Cultura ha appena diramato un “Avviso di selezione per il conferimento di 150 incarichi di collaborazione a esperti archivisti (…) da svolgersi presso gli Archivi di Stato, le Soprintendenze archivistiche e le Soprintendenze archivistiche e bibliografiche”. Sono tutti posti a termine, al massimo di 24 mesi, per cui si chiede addirittura la partita iva: precari ad altissima qualificazione a cui affidare un assetto strategico del Paese come la nostra stessa memoria collettiva (che ha importanti ricadute anche pratiche: senza archivi funzionanti non vanno avanti le pratiche del Pnrr). 

Dopo aver svuotato i ranghi degli archivisti, dopo aver interrotto la catena della trasmissione del sapere tra le generazioni, dopo aver messo le mani della politica sui posti sensibili (si ricordi il caso dell’archivio Centrale dello Stato), ecco lo schiavismo di Stato, senza ormai nessun pudore. Contemporaneamente, lo stesso Pnrr si appresta a rovesciare una cornucopia di soldi sulla esausta ricerca universitaria: costringendo però gli atenei a consorzi con imprese che prefigurano quella divisione delle università in livelli diversi che ancora non si è riusciti a imporre per legge. E, soprattutto, prevedendo di reclutare solo ricercatori precari (in gergo: “rdt di tipo a”): la ricchezza pubblica sulle spalle degli schiavi.

Del resto, avanza in Parlamento una riforma del reclutamento universitario (“Disposizioni in materia di attività di ricerca e di reclutamento dei ricercatori nelle università e negli enti pubblici di ricerca”) che inserisce “figure atipiche senza garanzie e con basse retribuzioni” (denuncia la Rete 29 aprile) e che estenderà ancora i tempi del precariato accademico, portandolo fino a 18 anni, e dunque prefigurando un ingresso nei ruoli a tempo indeterminato ben oltre i 40 anni: con conseguenze devastanti sulle vite di tutti, e soprattutto su quelle delle donne (ancora una volta).

E qui si arriva al legame tra le precarizzazioni e i licenziamenti delle direttrici dei musei. La precarizzazione non serve solo a risparmiare: ha anche uno scopo bio-politico. Proprio come il debito (cui sono indotte le famiglie occidentali), serve a controllare le vite, le intelligenze, le volontà. Un precario ha un unico pensiero dominante: la prosecuzione del lavoro. Non si ribella, non si mette di traverso, è indotto a pensare “conforme”. I direttori dei grandi musei autonomi così ben retribuiti sono l’altra faccia di questa medaglia: asserviti alla politica perché precari di lusso che dalla politica dipendono per il rinnovo dei loro contratti. Un archivista precario non farà resistenza all’uso politico della storia. Un ricercatore precario non contesterà la visione scientifica dominante, non si ribellerà al suo professore-padrone, non lotterà per la democrazia accademica.

In un’Italia governata da un banchiere garante dello stato delle cose, un museo governato da un banchiere caccia una direttrice che non si piega al pensiero unico delle grandi mostre, mentre il lavoro culturale è sempre più sottomesso. I gattopardi eternamente al potere hanno un unico obiettivo: che tutto rimanga così. Cioè che tutto rimanga loro.


Articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” l’8 novembre 2021. Fotografia di Andrea Collodi da Wikimedia Commons.

 

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