Tomaso Montanari
Martedì 7 luglio il Consiglio dei ministri approva il decreto Semplificazioni. Ancora ieri, gli uffici del Mibact (cui l’ho domandato come membro del Consiglio Superiore dei Beni Culturali) mi comunicavano che non ne esiste un testo definitivo, e che le bozze commentate negli scorsi giorni sui quotidiani sono tutte ampiamente superate in nodi cruciali.
Mentre sembra evitato l’abisso di un nuovo condono edilizio, per di più delegato ai comuni, rimangono incerte le norme sulle autorizzazioni paesaggistiche, sulle valutazioni di impatto ambientale, su punti cruciali dell’edilizia (tra cui quello che concederebbe di mettere le mani sui centri storici, bomba libera tutti per la speculazione edilizia). E sulla testa del patrimonio culturale continua a incombere il silenzio assenso: che farebbe funzionare la burocrazia non nell’unico modo sano (assumendo le migliaia di storici dell’arte, archeologi e architetti che oggi consegnano le pizze), ma spianando la strada ai vandali.
Il senso del decreto è riassunto nell’elenco di 130 Grandi Opere che dovrebbero “portare l’italia nel futuro”, secondo il presidente del Consiglio Conte. Una chiave di lettura esaltata, sul piano simbolico, dalla scena in cui l’ “avvocato difensore del popolo” venerdì scorso schiaccia il pulsante che alza le paratie del Mose a Venezia, dichiarando (con una faccia tosta degna di Alberto Sordi): “Non siamo qua per fare passerelle”. Agli ambientalisti che protestano, Conte risponde: “Di fronte all’ultimo miglio la politica si assume le proprie responsabilità e decide che con un ulteriore sforzo finanziario si completa, e si augura che funzioni”. La cassa aperta e il corno rosso in mano: intramontabile ritratto dell’impotenza politica italica.
Sono decenni che la bandiera delle semplificazioni viene sventolata: da tutti, da Berlusconi a Renzi. Naturalmente si gioca sull’equivoco: si lascia intendere che ad essere semplificata sarà la vita del cittadino, che conterà di più. E invece a contare sempre di più sono pochi centri di interesse e potere (a garantire i quali servono i commissariamenti delle grandi opere), e ad essere più semplice è la devastazione dell’ambiente (e dunque della salute) dei cittadini.
Io, che sono un ingenuo, continuo a sbalordirmi (e a incazzarmi) per il tradimento senza fine del Movimento 5 Stelle. Nel metodo: un Movimento che in nome della democrazia diretta sta pesantemente contribuendo al vilipendio del Parlamento, accetta poi che un decreto decisivo per il futuro dell’ambiente venga scritto nemmeno dall’esecutivo, ma dalla sorda burocrazia ministeriale che a parole si vorrebbe combattere. È la corridoiocrazia, perché è nei corridoi romani del potere che in queste ore si tolgono e si mettono commi: in una oscurità democratica in cui le lobbies del cemento ottengono quello che vogliono.
E poi nel merito. Perché dopo anni di seminari in cui il Movimento invitava a parlare tutto il pensiero critico ambientalista, quando è arrivato al governo tutto questo si è squagliato come neve al sole. La protesta era creativa e sorretta dalla conoscenza dei luoghi, dalle lotte dei comitati e dagli esperti, almeno quanto il governo è delegato all’eterna burocrazia romana e ai grumi di interesse privato. Prima il Movimento si è fatto complice della resurrezione del Tav in Val di Susa e ora blinda una lista in cui si allineano pressoché tutte le Grandi Opere contestate dai suoi meetup fondativi.
Non c’è traccia, nell’elenco di Conte, dell’unica Grande Opera utile, la messa in sesto del dissestatissimo territorio italiano: l’unica cosa che una politica che davvero si assumesse le proprie responsabilità, dovrebbe decidere. Non si arrestano le frane, non si governano i fiumi, non si fa manutenzione nelle foreste (anzi, secondo Italia Nostra le si minaccia mortalmente). E poi non si pensa alle aree interne, all’Italia dei margini, ai borghi spopolati da riabitare. Né c’è traccia dell’altra Grande Opera davvero vitale: trovare aule scolastiche per un milione di alunni. Ma invece ci sono, tra l’altro, tutti i totem dei renziani: l’aeroporto e lo sventramento Tav di Firenze e la maledetta Tirrenica.
Il simbolo di questa gattopardesca perpetuazione dell’ovvio consumo di Italia è proprio quel Mose a cui Conte ha voluto legare così indelebilmente la propria persona. Bisognava avere la forza di dichiararlo perento, di prendere atto che non funziona già e non funzionerà mai, e di destinare il fiume di soldi, che il Mose continuerà a mangiare per decenni, alla manutenzione della Laguna, tracciando finalmente una via sostenibile per il futuro della morente Venezia. Invece, nulla: l’inerzia conservatrice del Pd si è definitivamente mangiata i Cinque Stelle, mentre Conte semplifica proprio come Berlusconi e Renzi, augurandosi “che funzioni”.
Saranno le piogge, le alluvioni, le frane e le relative, (in)evitabili morti del prossimo autunno a dirci che, come sempre, non funzionerà.
Articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”, 13 luglio 2020
Fotografia del Magistrato alle Acque di Venezia – Consorzio Venezia Nuova da Wikimedia Commons