Palazzo Nardini, la perla del ’400 si può vendere

di Vittorio Emiliani

Con una sentenza clamorosa, in senso negativo, la IV Sezione del Consiglio di Stato ha quasi totalmente cancellato quella del Tar del Lazio che invece tutelava integralmente tutta la cittadella di Palazzo Nardini vietandone di fatto la vendita intervenuta per miseri 18 milioni di euro fra la Regione Lazio, proprietaria, e la società partecipata al 70% Invimit, e quindi la possibilità per quest’ultima di rivenderla “per fare cassa” per oltre 26 milioni di euro alla società privata Armellini Lemong Green srl. Il mondo si è rovesciato: anni fa quando il Tar bocciava i ricorsi di Italia Nostra e di altre associazioni per la tutela, si confidava sul fatto che il Consiglio di Stato, e proprio la IV Sezione, l’avrebbe riformata in modo illuminato. E così avveniva. Tutto il contrario.

La questione fondamentale era ed è: il complesso detto di Palazzo Nardini – che in realtà copre a partire dall’ultimo Medio Evo un’area vastissima fra la Via del Governo Vecchio, via del Corallo, via di Parione, via della Fossa per 6500 mq, dei quali poco meno di 4000 coperti – era e quindi è “alienabile”?

Una curiosità storica. Già il suo edificatore il cardinale di Milano Stefano Nardini di Forlì, primo governatore pontificio di Roma per incarico di Sisto IV, nel testamento aveva stabilito che potesse essere affittato, ma mai venduto. Talché anche il cardinale Francesco Sanseverino nel 1508 poté solo affittarlo, per 250 ducati d’oro l’anno. Altro dato fondamentale: durante gli ingenti  lavori complessivi di restauro e di consolidamento di Francesco Vespignani (durati fino al 1920), in esso potevano essere ospitate 3 Preture, 3 Conciliatori, la Pretura urbana, le Guardie di Sicurezza e Nazionali.  Nel maggio 1890 il ministro Giuseppe Fiorelli, archeologo, uno dei padri della tutela, scriveva che “è una delle case più originali di Roma (…) merita quindi che la sua originale struttura sia conservata come si trova”. Come si trova. E difatti anni dopo venne vincolata.

Ma era vendibile? No. O soltanto se si sosteneva che essa non aveva una sua identità e quindi non caratterizzava quella della Roma prima del Barocco. Tesi da buttarsi per terra dal ridere. Come affermare che Palazzo Taverna-Orsini o Palazzo Madama non sono un pezzo fondamentale della storia urbanistica di Roma. Eppure quella tesi della Regione Lazio e di Invimit passò, insieme all’avallo alla vendita del bene. La segreteria della apposita Commissione ministeriale nel 2016 (segretaria l’attuale soprintendente di Roma, Daniela Porro) non obiettò nulla e quindi la Soprintendente dell’epoca, Federica Galloni, attuale direttore generale del Mibact, avallò.

Un passo indietro però. Nel 2004 parte una campagna di denuncia: i tetti di Palazzo Nardini sono in parte crollati e il cortile centrale è il regno dei topi (morti spesso) e delle zanzare. L’assessore alla Cultura della Regione Lazio (Giunta Marrazzo) Giulia Rodano riesce a far stanziare 6 milioni di euro e altri 2 abbondanti ne mette il MiBACT (ministro Francesco Rutelli) rinforzando gli ultimi piani per i più grandi pesi (archivio, biblioteca, museo di statue). Si scoprono affreschi di pittori tedeschi nella sala dei convivi. Le strutture del Palazzo sono sane. Quando la Regione Lazio lo mette all’asta per 18 milioni, una miseria, Invimit in una pubblicità lo definisce addirittura “restaurato”.

Soffre molto, è vero, la facciata principale dove la plastica che chiudeva le finestre senza imposte non c’è più (e tutti se ne infischiano da anni) e dove alcune caditoie delle grondaie sono tagliate a metà e fanno marcire la facciata (e tutti alla Regione se ne fregano). Ma il soprintendente Francesco Prosperetti non ci sta e decide, con l’avallo del Ministero, di estendere e rafforzare i vincoli e quindi l’inalienabilità all’intero complesso nardiniano. Ovvio il ricorso Regione Lazio-Invimit e l’acquirente Armellini, società Lemon Green. Respinto con perdite dal Tar.

Torniamo a oggi. Poiché la molto argomentata sentenza del Tar ha messo in difficoltà gli acquirenti, ma il blocco imposto dalla pandemia ha impedito la possibilità di una “composizione bonaria della controversia” la stessa Avvocatura dello Stato è d’accordo su un rinvio “con fissazione di una nuova udienza”. Del tutto inaspettatamente la IV Sezione del Consiglio di Stata va invece a sentenza, subito, il 28 maggio. Perché tanta fretta? Perché tanta precipitazione? Un interrogativo che non trova risposta.

In ogni caso il vincolo generale rimane e la Lemon Green (Armellini) dovrà scontrarsi con esso se vorrà, come pare, farne una residenza per grandi ricchi americani o arabi. Dove farà bagni e servizi, camere da letto, cucine, servizi? Come “squarterà” la dimora cardinalizia?