Edek Osser, L’inflessibile Famiglietti

«Perché ho detto sempre no? Se lo Stato è la legge, lo Stato deve vincere. La prima urgenza del Mibac? La formazione dei funzionari»

Roma. Nella sua lunga permanenza in centri vitali e poi ai vertici del Ministero dei Beni culturali, Gino Famiglietti è stato, fra l’altro, direttore generale dell’Archeologia, poi degli Archivi e infine di Archeologia, Belle Arti e Paesaggio fino alla pensione, a 67 anni, lo scorso primo agosto.

Con i suoi «no» e le sue decisioni, Famiglietti ha fatto collezione di detrattori, di avversari e di veri e propri nemici che lo hanno accusato di esercitare una dannosa azione di freno, di esser di ostacolo allo sviluppo e alla fruizione del patrimonio culturale. Impossibile ricordare tutti i suoi molteplici interventi, sempre per affermare il primato assoluto della «tutela» e contro una malintesa «valorizzazione». Decreti, provvedimenti, circolari, note, atti di indirizzo, interventi diretti, sono elencati e descritti nelle 26 pagine di curriculum scritto da lui stesso per il Ministero.

Nato in un piccolo paese dell’Irpinia, Frigento (Av), Famiglietti ha vissuto una carriera lunga 39 anni, iniziata e conclusa al Ministero dei Beni culturali dopo una laurea in Giurisprudenza che l’ha portato a lavorare per anni come vicecapo dell’Ufficio Legislativo del Mibac. «La formazione giuridica, spiega Famiglietti, mi è stata sempre molto utile anche perché il nostro Ministero ha questa insostituibile funzione: sapere “che cosa” difendere è in fondo semplice, ma occorre poi sapere anche “come” farlo, per resistere poi ai ricorsi che in questo Paese sono prassi comune contro l’operato dell’Amministrazione. Se non sei convincente, se sbagli ad articolare il ragionamento in base al quale hai costruito il tuo provvedimento, il giudice ti darà torto».

Tra i tanti «no» di Famiglietti, alcuni controversi, molti hanno avuto ampia risonanza mediatica come quello all’ampliamento di Palazzo dei Diamanti a Ferrara, alla costruzione del McDonald’s e al vincolo su Villa Paolina a Roma, e poi la difesa del Palazzo di Giustizia e del Giardino dei Giusti a Milano, il divieto allo spostamento delle «Sette Opere di Misericordia» di Caravaggio per la mostra a Capodimonte a Napoli, l’esproprio dell’Archivio Vasari di Arezzo, il blocco ai lavori della metropolitana a Napoli per lo spostamento di una griglia in piazza Plebiscito, e molti, molti altri.

Dunque Famiglietti ha sempre operato per una rigorosa difesa del nostro patrimonio culturale, tanto rigorosa da sembrare a volte eccessiva ma condivisa da molti storici dell’arte come Salvatore Settis e Tomaso Montanari, ma anche da Italia Nostra e altre importanti associazioni. Nel 2011 ha ricevuto anche il Premio Zanotti Bianco proprio per la sua azione di tutela.

Questa la sua chiara posizione: «La funzione di chi dirige è quella di dare un indirizzo per l’attività dell’Amministrazione oltre che quella di assumere direttamente la responsabilità quando è necessario. Se non si fa questo si viene meno al proprio dovere. Il compito istituzionale è preciso: la riforma cosiddetta Bassanini ha dato grosse responsabilità alla burocrazia statale separando nettamente i compiti di indirizzo politico dell’azione amministrativa, tipici del ministro, da quelli di amministrazione attiva, che spettano alla dirigenza statale. Ma una volta ricevuto l’indirizzo, ci vuole la schiena dritta. Se il ministro dice che la tutela è la prima delle missioni da attuare, sta a te dirigente tradurre quell’indirizzo in azione concreta».

Prendiamo una delle sue importanti decisioni. Nel 2017 come direttore degli Archivi lei ha assicurato allo Stato l’archivio di Baldassar Castiglione. In base a quale criterio ha fatto quella scelta?

Se lasci in mano privata l’archivio Castiglione che, fra altri documenti fondamentali, come la prima versione del Cortegiano, comprende la minuta della lettera di Raffaello a papa Leone X, documento fondativo e vero manifesto della tutela del patrimonio culturale e dell’art. 9 della Costituzione, non fai il tuo dovere. Il privato può anche conservare perfettamente tali atti, ma il documento che esplicita la ragione stessa e i presupposti culturali della tutela non può che appartenere allo Stato. Il primo «no» nella storia della tutela a una certa politica di aggressione verso le «povere reliquie» della Patria l’ha espresso Raffaello. Al papa scriveva nel 1519: ma perché noi ci lamentiamo ancora di Vandali e Goti quando i distruttori dei monumenti e di ciò che resta dell’antica Roma sono stati proprio quelli che come padri e tutori li avrebbero dovuti difendere, e cioè molti papi e anche nobili e principi (cioè la nostra classe dirigente dell’epoca). A questo scempio Raffaello diceva «no» e chiedeva al suo papa di intervenire, suggerendogli anche come fare. Quel no di Raffaello è ancora valido oggi in questo Paese. Secondo me dobbiamo chiederci: è un «sì» sensato quello richiesto, e spesso preteso, rispetto a certi interventi, a certe demolizioni di monumenti, alla distruzione del paesaggio? Un «no» a queste cose è soltanto un no o è un «sì» a un altro tipo di cultura, a un’altra idea di sviluppo e di civiltà?

Lei quindi ritiene corretto qualificare se stesso come sostenitore della linea della tutela contro quella della valorizzazione?

Non sono argomenti in contrasto fra loro. È stato un certo tipo di visione commerciale, mercantilistica del patrimonio e del suo utilizzo a portare a questa contraddizione. Ne è responsabile la riforma insensata del Titolo V della Costituzione, fatta da un Governo che, in ragione delle sue dichiarate radici politiche, avrebbe dovuto avere ben altra sensibilità e attenzione per il patrimonio culturale come bene della Nazione.

Pensa che la riforma Franceschini fosse conseguenza di questa situazione? Lei non ha mai preso posizione a favore o contro quella riforma che puntava soprattutto alla valorizzazione. Oggi, fuori dal Ministero, che cosa ne pensa?

Mi chiedo: intendiamo la valorizzazione come necessità di portare quanti più visitatori è possibile nei musei, magari per consentire ai turisti di farsi dei selfie? O anche come esigenza di accogliere manifestazioni di dubbio gusto, dalle sfilate di moda alle cene esclusive nei musei o nei luoghi della cultura in genere? Bene, questa non è valorizzazione culturale, così come prevedono il Codice dei Beni culturali e l’art. 9 della Costituzione. Fin dalla legge del 1909 il fine ultimo della tutela è il pubblico godimento. Lei crede che una valorizzazione becera in termini di mero utilitarismo economico e il pubblico godimento di cui parlano le leggi dei principi del Novecento siano la stessa cosa? Io ho fatto questo nella mia attività: ho agito in modo tale che la valorizzazione intesa come pubblica fruizione a fini culturali fosse sempre praticata.

La riforma Bonisoli: noi, come molti altri, l’abbiamo definita un passo indietro, una controriforma. Lei non si è finora espresso. Come la valuta?

Circa la tesi che questa sia una controriforma io dico: non è così. Mi limito a un esempio che riguarda il settore che dirigevo: la novità più significativa per la Direzione Archeologia, Belle Arti e Paesaggio è stata il recupero al centro del Ministero della funzione di tutela: tutti i vincoli tornano oggi nelle mani del direttore generale. Questo accadeva già vent’anni fa quando era direttore Mario Serio. Così la Direzione generale aveva memoria di ciò che era tutelato. Adesso questa memoria si è perduta perché non sempre i provvedimenti che vengono emanati in periferia vengono trasmessi al centro e così, fatto gravissimo, non sappiamo che cosa è vincolato e che cosa non lo è. Cito il caso McDonald’s di Roma. Abbiamo scoperto, solo studiando tutte le carte, che c’era un vincolo del 2001 che richiamava un decreto presidenziale del 1965, il quale stabiliva che quell’area era vincolata dal punto di vista archeologico e paesaggistico. Al Ministero se ne era persa traccia e il McDonald’s era stato autorizzato. Così ho dovuto intervenire per bloccare tutto.

Lei è stato per 5 anni direttore regionale in Molise. Frutto di una sua scelta?

È successo nel 2009. Nel 2008 ero già direttore regionale in Lombardia e dopo la vittoria del centrodestra alle elezioni ho bloccato il progetto di trasformare il Palazzo di Giustizia di Milano in una serie di studi per avvocati e spostare la sede giudiziaria fuori città. Ho posto un vincolo per salvare un palazzo di alta qualità architettonica in stile razionalista, progettato da Marcello Piacentini e con molte opere d’arte del primo Novecento, ma anche per difendere la sua immagine, in rapporto alla storia politica contemporanea, in quanto esso era diventato praticamente il simbolo di Mani pulite. A questo punto sono stato «invitato» a tornare a Roma dove, nel 2009, mi sono misurato con la vicenda della commode che mi ha portato in Molise.

Una storia complicata finita poi con un accordo a livello politico che ha permesso alla commode di finire alla reggia di Versailles. Come è andata la storia?

Quando sono arrivato a Roma, era da tempo al centro di una controversa disputa con il Ministero un’importante commode francese settecentesca dell’ebanista di Luigi XV Antoine-Robert Gaudreaus, soggetta a vincolo fin dal 1986. In cambio del permesso di esportazione, l’ente che ne era proprietario aveva proposto una donazione di opere d’arte allo Stato. D’intesa con Claudio Strinati facemmo notare che in quel caso, trattandosi di un’opera d’arte vincolata, la tutela era un atto dovuto e la rinuncia all’esercizio di un tale dovere da parte degli uffici non poteva essere oggetto di trattativa e tanto meno oggetto di una compravendita. Saremmo entrati in un meccanismo da mercato delle vacche: noi non applichiamo la tutela e, in cambio, tu mi regali qualcosa. Per di più, mentre l’ebanista della commode è francese, le sue decorazioni in bronzo sono di Jacques (Giacomo) Cafieri, famoso bronzista i cui genitori erano di Sorrento, dunque quel mobile prezioso rappresenta l’incontro tra la cultura francese e quella italiana. Quando mi è stato chiesto un parere ho risposto che quella commode non poteva essere esportata. L’ufficio esportazione vietò l’espatrio e i privati fecero ricorso. L’Amministrazione si difese poco e male. 

In questo caso la sua posizione intransigente può sembrare davvero troppo rigida. 

Se un oggetto ha le qualità per essere tutelato, l’Amministrazione ha il dovere di emanare il relativo provvedimento. Lo stabiliva già una direttiva ministeriale del 2005. Eppure, a causa di questa vicenda, mi hanno mandato a fare il direttore regionale in Molise, non certo una promozione.

E lei come ha reagito a quel trasferimento imposto?

In Molise ho fatto come in Lombardia: visti i problemi mi sono comportato di conseguenza. Caratteristica del Molise è la grande ricchezza di siti archeologici sanniti che, a parte i casi di centri come Sepino e Pietrabbondante, sono dislocati soprattutto sui crinali della montagne e consistono perlopiù in cinte fortificate per il controllo del territorio. Al mio arrivo ho trovato sulla scrivania richieste per costruire in quel piccolo territorio oltre tremila pale eoliche, quasi una per chilometro quadrato, ovviamente tutte da dislocare su quei medesimi crinali e da realizzare in una regione che, di suo, aveva già raggiunto la quota percentuale di energia da produrre da fonti rinnovabili. Nei 5 anni della mia gestione non ne è stata realizzata neanche una. Ho difeso insieme memoria storica e paesaggio di quel territorio.

Se lei fosse il ministro, quale sarebbe il primo problema da affrontare?

Quello della formazione, che faccia diventare architetti, archeologi, storici dell’arte ecc. veri funzionari dello Stato. È questo che manca. Siamo nati dalla sommatoria di varie amministrazioni con personale di provenienze diverse: Pubblica istruzione, Interni e altro. Non siamo mai diventati funzionari di questo Ministero.

E questa è anche la situazione di oggi?

Certo, perché non c’è una scuola che insegni davvero ai nuovi assunti a diventare funzionari dello Stato. Il ministro Franceschini ha creato una scuola per il Patrimonio culturale che però non è stata messa in condizione di funzionare. 

Il Mibac ha in programma concorsi per migliaia di assunzioni, molti per funzionari. Secondo lei i nuovi assunti potranno migliorare la situazione?

Le assunzioni avvengono con il solito sistema. Laurea e specializzazione per settore. Un momento di formazione unitaria non c’è né prima né dopo. Se tu crei una struttura ma chi è chiamato a gestirla si limita a organizzare incontri periodici con eminenti personalità che tengono una lezione e se ne vanno, questo non serve alla formazione. La scuola deve mettere il funzionario di fronte a problemi concreti o non imparerà mai il mestiere: deve sapere come impostare un vincolo o un diniego di autorizzazione. Il Mibac è diverso dagli altri Ministeri. Noi siamo una sorta di «Magistratura del territorio e del patrimonio», dobbiamo ricordarlo sempre. Abbiamo il potere di disporre espropri, prelazioni, acquisti coattivi, vietare esportazioni e altri atti autoritativi che incidono sulla sfera giuridica del privato. Se non li sappiamo costruire e motivare, oltre a non raggiungere il risultato voluto diamo una pessima immagine dell’Amministrazione. Se non riesci a far capire perché usi strumenti coercitivi per realizzare il bene pubblico, il dire «no» diventa una violenza incomprensibile.

Lei ha basato tutto il suo lavoro su questa filosofia: l’hanno definita il «Signor no» del Ministero.

Ma io ho sempre detto «no» secondo una chiara visione delle cose e chiari principi. Faccio un esempio: ho detto no all’uscita del manoscritto di Maimonide e l’ho comprato per lo Stato. A mio parere non è possibile che questo documento, appartenuto a una grande famiglia ebrea del Rinascimento, i Norsa, finisca nelle mani di un privato all’estero invece di essere valorizzato in Italia. E aggiungo che in un primo tempo era stata consentita la sua esportazione considerandolo solo un’opera d’arte in ragione delle miniature che lo decorano. Ma sul frontespizio c’è il contratto di compravendita che dovrebbe essere negli archivi statali. In questo caso, invece, gli antichi acquirenti hanno legato il contratto, atto pubblico proprietà dello Stato, a un libro che è privato. Ma come si può consentire l’esportazione di un bene demaniale? Al Ministero, chi aveva dato il permesso non si era reso conto di questa contraddizione e intanto era già stato raggiunto un accordo tra il venditore italiano e un compratore austriaco. Ma poiché la rilegatura cinquecentesca ne faceva un tutt’uno e non era certo possibile separare le due parti, l’unica strada era: vietarne l’esportazione e comprarlo per lo Stato. E così ho fatto. 

Dunque in questo caso è stato bloccato un contratto già concluso. Lei cita questo caso, avvenuto nel 2017 quando lei era direttore generale degli Archivi. Ma di questi interventi lei ne ha fatti molti, da qui la sua fama di «signor no». Resta da capire se in altri casi siano stati lesi diritti acquisiti danneggiando i contraenti.

Il privato, nel caso del libro di Maimonide, è ricorso al Tar che gli ha dato torto. Dunque il vincolo era ben motivato e giustificato. Del resto, io ho avuto sei querele in sede penale in ragione della mia attività al Ministero e sono sempre stato assolto perché il fatto non sussisteva o perché non costituiva reato. 

Le chiedo: se lei fosse nominato per un anno plenipotenziario nel campo dei beni culturali, che cosa cambierebbe nel sistema di tutela e di organizzazione del patrimonio artistico del nostro Paese?

Una cosa l’ho già detta: occorre puntare di più sulla formazione. Un’altra scelta importante sarebbe quella di richiamare tutti al senso di dignità del proprio ruolo, nel rispetto delle regole dettate dalle leggi Bassanini: svolgere il proprio ruolo in piena autonomia, con dignità e coscienza (con disciplina e onore, recita la Costituzione). È come se noi avessimo abdicato a questo dovere. Da un lato la classe politica ha preferito far sì che i propri «desiderata» fossero realizzati dai dirigenti, che in molti casi si sono prestati di buon grado, e non sono finiti in Molise, ovviamente. Non faccio nomi ma ci sono persone che hanno svolto la loro carriera rimanendo sempre nella loro città d’origine o di residenza. Il motivo mi sembra chiaro. Io ho girato tutta l’Italia: Toscana, Campania, Lazio, Lombardia, di nuovo Lazio, Molise, Calabria, e infine ancora Lazio.

È una forte denuncia ai politici ma soprattutto all’alta burocrazia dello Stato…

Non è una denuncia ma un dato di fatto. Basta guardare i curricula dei dirigenti. Ma un comportamento compiacente ti fa perdere la libertà e la possibilità di compiere certe azioni, perché se le fai, perdi i vantaggi ottenuti e paghi prezzi molto pesanti, alzandoti magari alle 4 del mattino come è toccato a me per 5 anni quando ero in Molise e dovevo andare a Campobasso con tre ore di treno. 

Quanto pesa il potere politico sulla struttura burocratica dei Ministeri?

È un rapporto che non funziona: dobbiamo ricordarci che svolgiamo un servizio pubblico e se questo servizio è in contrasto con i «suggerimenti» che arrivano dalla politica, di quei suggerimenti non bisogna tener conto. Ma accade che, se ci si comporta in questo modo, si viene allontanati, spediti come è successo a me in Molise, in Calabria… Si gira l’Italia.

Quindi lei segnala due grandi problemi: la formazione e il recupero della dignità. Ma come si insegna la dignità?

Guardi, a El Alamein è stata messa una lapide per ricordare il coraggio dei nostri soldati sconfitti: «È mancata la fortuna, non il valore». Per molti dirigenti potrebbe essere invertita: «È mancato il valore, non la fortuna». Questo è un Ministero che richiederebbe in chi lo dirige una profonda esperienza specifica del settore. Se è affidato, come è accaduto quasi sempre, a persone che non hanno mai avuto prima nessun rapporto con questo mondo, può accadere di tutto. Ripeto che noi abbiamo una funzione paragonabile a quella di un magistrato. Interveniamo sul territorio: lo possiamo difendere o affossare. 

A proposito di territorio lei ha avuto un forte contrasto sul Piano paesaggistico presentato dalla Regione Lazio. Qual è stata la sua posizione?

La legge del 1922 e poi del ’39 prevedeva che ogni vincolo paesaggistico recasse prescrizioni per assicurare al contempo lo sviluppo del territorio insieme con la salvaguardia dei valori tutelati. Il vincolo non impedisce lo sviluppo, che deve però essere compatibile con le caratteristiche e le qualità che hanno giustificato il vincolo stesso. Noi non siamo i padroni né dei monumenti né del territorio: ne siamo i gestori. Una volta vincolato il territorio io devo dare autorizzazioni e permessi che consentano lo sviluppo ma rispettino le ragioni del vincolo. Altrimenti vado oltre le mie competenze e commetto un abuso di potere perché distruggo quello che devo tutelare, e la tutela è un dovere. Abbiamo passato due anni per concordare con la Regione Lazio le modifiche al Piano paesaggistico. Fatto l’accordo, la Regione Lazio ha ripresentato il Piano redatto prima di quelle modifiche e senza nessuna vera motivazione.

Qual è stata la cosa che le ha dato la massima soddisfazione durante la sua carriera al Mibac?

La più significativa, quando ero direttore generale degli Archivi, è stata l’acquisto dell’archivio di Baldassar Castiglione con la lettera di Raffaello a Leone X.

Lei è stato protagonista di uno storico accordo tra il Mibac e la famiglia Torlonia per rendere di nuovo visibile al pubblico la sua importantissima collezione: 623 marmi antichi, da anni nascosti in un deposito. So che si sta preparando una grande mostra entro l’anno. E per il resto, a che punto siamo?

L’accordo che ho raggiunto con i Torlonia nel 2015, dopo quasi un anno di trattative, era che la loro collezione sarebbe stata restaurata, e in parte presentata in una mostra a cura di Salvatore Settis e Carlo Gasparri e poi esposta nella sua interezza in un museo: lo Stato non può valorizzare la collezione Torlonia perché i proprietari continuino a tenersela in casa loro. Ma di quell’accordo è rimasto ben poco. Intanto la Direzione Antichità da me diretta che aveva chiuso l’accordo fu accorpata con un’altra e io non ho più avuto alcun ruolo. Si va avanti sia pure con fatica sulla strada della mostra, ma resta una grande incognita: fatta la mostra, che cosa accadrà dopo? Nessuno si è preso la briga, tra quanti si sono avvicendati alla Soprintendenza di Roma e alla Direzione generale, di capire almeno dove andranno a finire queste statue.

È un’omissione clamorosa. Nessuno se ne sta occupando?

A me non risulta che siano state prese decisioni in merito. Dopo la morte del principe Alessandro Torlonia la lite tra gli eredi ha indotto il giudice ad avviare un censimento di tutte le opere d’arte presenti nelle dimore Torlonia che dovrebbe portare a un vincolo non soltanto delle sculture della collezione. Del resto, a Roma ci sono talmente tanti problemi da affrontare che io riterrei opportuna la nomina di un commissario straordinario per la gestione della locale Soprintendenza.

 

 da Il Giornale dell’Arte numero 400, settembre 2019

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