Salvatore Settis, Decreto Musei: niente partigianerie

Attacchi al ministro Bonisoli – Lo scontro sul suo operato avviene per appartenenze, non sui fatti. E finisce col rappresentare una difesa della riforma Franceschini, in vista di una contro-controriforma 

 

Riforma, contro-riforma, contro-contro riforma: le polemiche in corso sui Beni culturali rischiano di apparire marginali, ma non lo sono, perché s’intrecciano con le discussioni sul governo M5S-Pd, dove questo tema dovrebbe essere centrale.

Gli attacchi al ministro Bonisoli (uno dei pochi dell’infelice governo appena tramontato che si siano mostrati degni di rispetto) sono spesso la difesa della riforma Franceschini in vista di una contro-controriforma. Ma la cosiddetta contro-riforma Bonisoli non ha affatto sconvolto l’assetto Franceschini, pur introducendovi alcune modifiche. I non addetti ai lavori hanno difficoltà a capire i termini del problema, e lo scontro avviene per partigianerie e appartenenze, non secondo analisi e ragione.

Cuore e vanto della cultura italiana della tutela è da più di un secolo il suo carattere capillare, contestuale e territoriale, che ha radice negli Stati pre-unitari e poi nelle leggi dell’Italia unita – come quelle del 1909 (Rava) sul patrimonio culturale e del 1922 (Croce) sul paesaggio, rinnovate con le leggi Bottai (1939) – la cui essenza fu riversata nell’art. 9 della Costituzione (“La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”). Il sistema fu poi esteso dalla Corte costituzionale, che creò la nozione costituzionale di “ambiente” sommando, in via interpretativa, il paesaggio dell’art. 9 al diritto alla salute dell’art. 32: ambiente, paesaggio, patrimonio storico e artistico formano dunque una forte unità. Al suo rispetto vegliano da più di un secolo le istituzioni di tutela (le Soprintendenze), coordinate dal ministero (prima della Pubblica Istruzione, ora dei Beni culturali). Tale coordinamento centrale è necessario, secondo la logica di sistema, perché norme e procedure di tutela siano coerenti in tutta Italia. Certo, il sistema non è perfetto: il suo maggior difetto è che il “paesaggio” non coincide con le nozioni giuridiche di “territorio” e ”ambiente”, ingenerando conflitti di competenza fra Stato e Regioni, un contrasto che si trascina da 80 anni senza trovar soluzione. Eppure, la rete delle Soprintendenze è il più avanzato progetto mai fatto in Europa di trattare come unità concettuale, storica e giuridica il paesaggio e il patrimonio archeologico, storico e artistico. La ratio è semplicissima: è necessario uno sguardo onnicomprensivo e relazionale, che in ciascun oggetto della tutela riconosca un nodo di una rete assai maggiore della mera somma delle sue parti. Il sistema è stato minato da due fattori: il forte calo di personale (e dunque di efficienza) e le rivendicazioni di Regioni e Comuni. Di qui le invettive contro le Soprintendenze, “potere borbonico da abolire” secondo l’ex sindaco leghista di Verona, Flavio Tosi; “Una delle parole più brutte del vocabolario della burocrazia”, secondo Matteo Renzi. Un buon ministro dei Beni culturali deve assecondare la crisi, portando a morte il glorioso sistema italiano della tutela, o deve invece difenderlo accrescendone la funzionalità? Franceschini e Bonisoli hanno entrambi provato (con successo parziale) a intervenire sulle carenze di personale con nuove assunzioni. Hanno introdotto nel loro ministero modifiche strutturali, come già molti loro predecessori (Veltroni, Melandri, Urbani, Rutelli, Bondi). La riforma Franceschini ebbe marcato carattere burocratico: lo mostra sia l’abolizione delle Soprintendenze archeologiche, inglobate entro più vaste unità, sia la “dipendenza funzionale” delle Soprintendenze dai prefetti (legge Madia). Ma il suo aspetto più noto, anche perché lanciato con la grancassa renziana, è l’autonomia dei principali musei: ed è su questo punto che incidono i provvedimenti Bonisoli.

Il ministero “modello Franceschini” comporta una forte bipartizione fra tutela e valorizzazione e individua musei e parchi archeologici come luoghi deputati della “valorizzazione”. Di qui la scelta di creare un piccolo numero di “super-musei” con speciale autonomia, di raccogliere gli altri entro “poli museali” (spesso disomogenei), e di concepire le Soprintendenze territoriali, dopo averne estirpato musei e parchi, come enti residuali. Si allenta in tal modo il carattere organico della tutela territoriale, e la promozione dei musei a cuore del sistema si fa a spese del territorio, tradendo l’originale spirito della tutela. Ma se l’idea di una forte autonomia dei musei è giusta (come lo è aprire a direttori non-italiani), la riforma ha mortificato e indebolito il sistema di tutela territoriale: i musei italiani (a differenza del Metropolitan o del Louvre) sono diretta espressione del territorio, e dunque forme di autonomia si dovevano concedere, senza staccarli dalla rete relazionale di cui fanno parte. “Autonomia” è, nella discussione in corso, la parola chiave, anche perché ce n’è una ben più minacciosa fattispecie: l’“autonomia differenziata” delle Regioni, che intende metter le mani anche sul sistema della tutela.

Questo progetto leghista ha avuto una battuta d’arresto, ma fatalmente risorgerà: anche perché fa leva sul Titolo V della Costituzione secondo la riforma del 2001 (centrosinistra) e su accordi preliminari firmati Gentiloni. Perciò anziché difendere l’autonomia museale credendosi per definizione nel giusto sarebbe il caso di capire (si veda l’articolo che ho firmato con Tomaso Montanari sul Fatto del 29 giugno) che riportare al centro alcune decisioni allontana il rischio di una regionalizzazione della tutela che già in Sicilia ha avuto deleterie conseguenze.

Anziché predicare “Franceschini buono, Bonisoli cattivo” è opportuno guardare da vicino i provvedimenti giudicando nel merito. Qualche esempio: se gli “accorpamenti” di uffici rimproverati a Bonisoli sono un male, come mai il discutibile accorpamento della Direzione generale Archeologia con Belle Arti e Paesaggio, operato da Franceschini, sarebbe invece un bene? Eppure, l’accusa a Bonisoli di essere artefice di accorpamenti si è spinta fino ad attribuire a lui, e non a Franceschini, quella decisione. Ma l’esempio più chiaro sono gli organi di coordinamento nati come Soprintendenze (poi Direzioni, poi Segretariati) regionali. Essi diventano ora Segretariati distrettuali, il cui territorio può estendersi a più Regioni, efficace controveleno alla possibile regionalizzazione della tutela. Altro esempio: quando il segretario generale Panebianco ricorda che i direttori dei musei autonomi, in quanto consegnatari anche degli edifici pubblici dove essi hanno sede, non possono intervenire sulle architetture senza il consenso della relativa Soprintendenza territoriale, non fa che applicare la legge. Eppure è stato criticato proprio da chi intanto sostiene, secondo il modello Franceschini, che direttore di un museo può essere un manager (e non storico dell’arte o archeologo), dunque senza competenze per intervenire su edifici storici.

Se qualcosa si può rimproverare alle norme Bonisoli è semmai di aver lasciato sostanzialmente intatto il modello Franceschini, pur intervenendo sulla redistribuzione di alcune entità museali, come l’Accademia a Firenze o il Cenacolo a Milano. Scelte discutibili, certo, ma che non “inceneriscono” la riforma Franceschini come ha scritto Repubblica. Anzi, pur correggendone alcuni aspetti, la confermano anche troppo.

 

 FQ  | 29 AGOSTO 2019

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