Claudio Magris, Via dalla fila dei pifferai – meglio Betlemme

Curioso come in molte sciagure la ricerca del piacere si riveli una pulsione di morte. Quasi tutti siamo topi o bambini in un corteo che segue un capobanda sconosciuto, ripetendo le stesse

parole e slogan.

Natale non è tempo di fiabe, perché le fiabe celano presagi e trionfi di morte, mentre quella capanna di Betlemme non è solo nascita e vita, ma nascita di un bambino venuto a sconfiggere la morte, la paura e l’oscura fascinazione della morte. Soltanto un’idiozia generalizzata ha potuto sostituire a quel bambino riscaldato dal fiato del bue e dell’asino il faccione rubizzo e svampito di Babbo Natale, con le sue renne, buone per la pubblicità dei luoghi di villeggiatura e di scipiti grandi alberghi sulla neve, ma che non si adattano ai cedri o agli ulivi della Palestina né ai cammelli dei Magi venuti a portare a Gesù l’omaggio della loro religione e della loro sapienza. 

La fiaba del Pifferaio

C’è tuttavia una fiaba che dice bene la nostra realtà, sempre più ignara di quella capanna e della sua grandiosa e temeraria promessa di gloria e di pace, la fiaba del Pifferaio di Hamelin, raccolta dai Fratelli Grimm.

Nel 1284, dice quella fiaba, arrivò a Hamelin, una cittadina della Germania, un uomo che promise di liberare la città, dietro compenso, dai topi e dai ratti che la infestavano. Infatti, non appena si mise a suonare il suo piffero, topi e ratti uscirono dalle case e dalle fogne e si misero a seguirlo, affascinati dalla sua musica, e lo seguirono anche quando egli entrò nel fiume Weser, dove affogarono tutti. Ma poiché i cittadini di Hamelin non gli avevano dato la somma pattuita, dopo qualche tempo egli ritornò e ricominciò a suonare percorrendo tutte le vie della città, seguito stavolta non da topi ma da bambini e bambine — circa centotrenta, dice la fiaba — che camminarono dietro a lui, ballando al suono della sua musica, sino a una grande montagna dove scomparvero per sempre, forse in una grotta buia e profonda. 

Le sciagure dei nostri giorni

I giovani morti di recente in una discoteca di Corinaldo sono sei, non centotrenta, ma si aggiungono a una lunga lista di tragedie analoghe. Non è la prima volta che locali e situazioni del genere, luoghi e occasioni di divertimento, diventano teatro di morte, inconsapevole guerriglia contro la sovrappopolazione del mondo. 

È curioso che, in molte simili sciagure, la ricerca del piacere — come dovrebbe essere andare a fare festa, a ballare, a stare gioiosamente insieme, a cercare compagnia — si riveli una pulsione di morte. Anche quando una pista da ballo diventa un tritacarne o una camera a gas, si continua a volervi entrare, pigiati come l’uva sotto i piedi nei tini delle vendemmie di un tempo, a spese dell’istinto di conservazione e con soddisfazione dei tetri moralisti lieti di vedere il piacere punito. 

Siamo tutti in un corteo che segue un capobanda sconosciuto, come nella fiaba; quasi tutti siamo topi o bambini che seguono frotte di pifferai d’ogni genere, ripetendo le stesse parole e gli stessi slogan, leggendo gli stessi libri, presentando i nostri libri perché tutti promuovono i loro, spettatori che in un cinema si alzano perché si sono alzati gli altri nelle file davanti, mentre si potrebbe godere il film stando tutti seduti.

Dire di no

Basterebbe ogni tanto dire di no, uscire dalla fila; nella notte di Natale i pastori arrivano in pace a Betlemme, davanti alla capanna ascoltano i cori degli angeli, ma ad un certo momento se ne vanno probabilmente tranquilli a casa. Ma è difficile dire di no, anche perché pure chi è in coda al corteo è, volente o nolente, a sua volta un pifferaio che ne trascina altri. E tutti seguiamo il pifferaio beati e contenti, camminando e ballando come i ragazzini dietro il loro pifferaio, mentre dietro di noi camminano e ballano altri, ignari e giulivi. 

A quello di Hamelin, nella fiaba, sfuggono soltanto due ragazzini. Uno è cieco e perde il sentiero su cui si incammina il corteo e l’altro è muto e non riesce a spiegargli quale sia il sentiero da seguire e mentre si affanna invano a cercare un modo di dirglielo lo perde anche lui. Entrambi se ne tornano a casa, unici sopravvissuti.

Certo, sarebbe meglio se, in simili circostanze, fossimo tutti almeno un po’ sordi.

 

 

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