Tomaso Montanari, Quale politica per i musei?

Le domeniche gratuite ai musei erano state una intelligente trovata autopubblicitaria di Dario Franceschini, il ministro per i Beni culturali che ha fatto più danni alla tutela in tutta la storia

della Repubblica, ma anche il ministro con il miglior ufficio stampa. Il marketing dell’inaffondabile avvocato democristiano ferrarese aveva funzionato: e oggi una parte cospicua del mondo dell’informazione, orfano di quelle veline, si scaglia contro il successore di Franceschini, il pentastellato Alberto Bonisoli, che annuncia la fine dell’iniziativa.

Il difetto principale dell’idea franceschiniana era concentrare in poche ore, quelle della prima domenica di ogni mese, un’enorme quantità di pubblico, rendendo assai spesso del tutto vana, o anzi penosa, la visita. Alcune fotografie scattate alla Reggia di Caserta descrivono uno scenario da stadio, a Pompei si fu costretti a introdurre il numero chiuso e un po’ ovunque si registrarono commenti desolati: la folla era tale da rendere impossibile vedere le opere, da mettere a rischio queste ultime e da rendere il lavoro impossibile a custodi, funzionari e direttori.

La retorica di un democratico accesso per tutti nascondeva una realtà classista, in cui ai meno ricchi toccava anche di vedere i musei attraverso una folla da saldi commerciali. In più, Franceschini aveva finanziato questa gratuità a spese di un’altra, non estendendo ma barattando i diritti del pubblico: in particolare, a essere soppresso era stato il libero accesso per chi aveva più di 65 anni. Una scelta punitiva verso una grande fetta di coloro che hanno ormai il tempo di visitare i musei, dopo averli finanziati con una vita di tasse, e che spesso lo fanno con i nipoti, fortificando un’alleanza generazionale basata sulla cultura.

Dunque tutto bene ora che Bonisoli fa marcia indietro? Fino a un certo punto.

Il ministro dice che viene abrogata una norma centralista, e che d’ora in poi i direttori decideranno in autonomia. L’argomentazione non è priva di senso, ma è debole: perché le manca totalmente una visione della cultura, e soprattutto del diritto alla cultura. E lo Stato non può non avere una linea unica su un punto dirimente come questo.

D’altra parte, la scelta di togliere una gratuità senza compensarla in alcun modo non è sbagliata solo mediaticamente, lo è anche sul piano di una (qualunque) politica della cultura. Un giudizio che si aggrava quando si leggono le motivazioni, francamente imbarazzanti, con le quali Bonisoli ha accompagnato l’annuncio: motivazioni che si inerpicano sulla strada della psicologia dei consumi, riducendo tutto a un problema di marketing e dando per scontato che lo Stato con i musei deve comunque farci soldi.

E qua sta il punto: siamo proprio sicuri che le cose stiano così?

Personalmente ritengo che l’attuazione del primo comma dell’articolo 9 della Costituzione («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura») sia di fatto incompatibile con qualunque barriera posta dallo Stato all’ingresso del patrimonio culturale: a partire da quella economica, che è per giunta discriminatoria. I cittadini già pagano, come contribuenti, per il patrimonio, mantenendolo con le loro tasse: e, visto il sistema, lo fanno in modo non progressivo (e lo sarebbe ancora di meno con la flat tax leghista). I poveri, cioè, pagano già i musei più dei ricchi: aggiungere a questa ingiustizia l’ingiustizia dei biglietti è davvero grave. Dunque, sarebbe naturale pensare a una abolizione non delle (dannose) domeniche gratuite, ma degli stessi biglietti dei musei. Ma quanto costerebbe?

Dopo i vergognosi aumenti delle tariffe provocati dalla riforma Franceschini, gli incassi dei musei statali raggiungono quasi i 200 milioni di euro l’anno, ma una percentuale che va dal 20 al 30 per cento è destinata ai concessionari privati che gestiscono le biglietterie. In pratica, lo Stato guadagna ogni anno dai musei quanto spende in due giorni di spesa militare (Rapporto Mil€x 2018). Questo è il punto: potremmo permetterci di aprire a tutti gratuitamente tutti i musei statali per 365 giorni l’anno semplicemente decidendo di non spendere in armi almeno per due giorni all’anno (che so: Pasqua e Natale!).

Temo, peraltro, che sia inutile aspettarsi aperture di questo valore simbolico e culturale dal governo di Salvini, e da un ministro per i Beni culturali che, pur animato da buone intenzioni, non si sta certo attrezzando per lasciare un qualche segno. La conferma di una capo di gabinetto legatissima a Franceschini e l’imminente nomina di un segretario generale esterno, esperto in lotta alla droga e totalmente ignaro di patrimonio culturale, lasciano intuire che non sarà Bonisoli a governare, di fatto, il suo ministero.

Il rischio è che le macerie materiali e morali lasciate da decenni di incuria e infine dalla barbarie del liberismo renziano continuino a ingombrare assai a lungo la strada che dovrebbe e potrebbe portare all’attuazione del progetto costituzionale sulla cultura.

 

Quale politica per i musei?

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.