di Francesco Borghero*
Da WhatsApp al Parlamento
In principio era la rete. Nel marzo del 2020, poco dopo l’entrata in vigore del DPCM che estendeva su tutto il territorio nazionale le misure di contenimento e contrasto dell’epidemia da
Covid-19, un gruppo di dottorandi e giovani ricercatori in Storia Medievale, già in contatto tramite vari social network, decide di creare un gruppo WhatsApp come base di appoggio per reagire al disorientamento provocato dall’improvviso lockdown e dalla chiusura di università, archivi e biblioteche, luoghi cardine della didattica e della ricerca umanistica.
Il gruppo raccoglie man mano decine di studiosi, sino a radunare, in pochi mesi, quasi tutti i giovani medievisti italiani.
Dopo le contingentate riaperture estive, la rinnovata chiusura di archivi e biblioteche a seguito del DPCM 3 nov. 2020 assesta un altro duro colpo ai percorsi di studio e ricerca dei giovani storici.
Il gruppo di giovani medievisti decide allora di creare un nuovo gruppo denominato Crociata archivistica. Armati di computer e smartphone si parte alla riconquista del Santo Graal degli storici: libri e documenti.
Il primo passo è l’apertura di un Google Docs per redigere in maniera condivisa un Appello per la continuità di apertura di archivi e biblioteche. Il testo viene elaborato da undici giovani studiosi.
Il secondo passo è l’invito pubblico alla sottoscrizione della petizione. Il documento redatto su Google Docs viene condiviso su social network e mailing-list, con indicazioni per evitare modifiche al testo e un monitoraggio ‘Wiki’. Un sistema rudimentale, che ha però permesso alla petizione di raccogliere già nelle prime ore centinaia di adesioni.
In meno di due settimane l’appello raccoglie quasi 3000 sottoscrizioni. Aderiscono inoltre tutte le società storiche e la Giunta Centrale per gli Studi Storici.
Intanto, i redattori iniziano a riunirsi regolarmente anche tramite videochiamata per coordinare il da farsi. Si decide di passare a un Google Form, mezzo più adatto per raccogliere ulteriori sottoscrizioni. Alcuni mettono in campo le loro competenze nell’analisi dei dati, redigendo un database strutturato dei firmatari, mentre tutto il materiale relativo alla petizione viene salvato su drive virtuale condiviso.
L’appello prosegue dunque su due binari paralleli. Il primo è la divulgazione con social network e mass media: viene allestita una pagina Facebook. Il passaparola telematico e l’interesse per la questione portano ai primi contatti con la stampa e alla pubblicazione di diversi articoli su quotidiani di rilevanza nazionale e a una intervista radiofonica.
Il secondo canale d’azione è istituzionale: la petizione viene inviata a tutti i rettori universitari, ai direttori di archivi e biblioteche statali italiani. Una volta raccolte le ultime adesioni, viene stabilito un contatto con alcuni membri della VII Commissione permanente del Senato della Repubblica (Istruzione pubblica, beni culturali, ricerca scientifica, spettacolo e sport).
Il 26 novembre l’appello si traduce in una interrogazione parlamentare al Senato.
Risorse e tecnologie digitali alla prova del Covid-19
L’appello denuncia l’assenza di forme di tutela per i professionisti della ricerca umanistica di fronte all’emergenza Covid-19.
Se le risorse e le tecnologie digitali sono state fondamentali per la redazione e condivisione dell’appello, nondimeno esse permettono di sopperire solo in minima parte alla chiusura degli istituti di cultura: l’accesso diretto a depositi librari e fondi archivistici rimane fondamentale e insostituibile, dal momento che gran parte dei materiali librari e documentari non è digitalizzata e consultabile in via telematica.
La digitalizzazione del patrimonio archivistico e librario rimane nondimeno un tema fondamentale, che necessita un dibattito ampio, ai massimi livelli istituzionali, da accompagnare a quello, altrettanto cruciale, relativo alla preservazione degli archivi nati in forma digitale.
Il recente caso dell’archivio storico “scomparso” del quotidiano La Stampa ha gettato luce sulle problematiche legate all’obsolescenza tecnologica, all’utilizzo di software proprietari e alla sicurezza dei dati. In ballo c’è la preservazione della memoria del nostro passato, per garantire la quale sono necessari investimenti e risorse in ricerca e innovazione. Questioni sollevate da chi in questi anni si spende nei campi dell’Open Access e delle Digital Humanities ed evidenziate recentemente anche dall’ANAI.
Un’emergenza democratica
All’appello per la riapertura di archivi e biblioteche si sono affiancate altre petizioni come quelle promosse dall’AIB e dall’ICOM per la riapertura dei musei e la mozione ADI per le proroghe dei dottorati di ricerca. Illustri studiosi si sono espressi su questi temi, tra i quali Salvatore Settis.
Il problema dell’accesso ad archivi e biblioteche va oltre le legittime necessità di studio e ricerca degli specialisti. La questione archivistica e bibliotecaria ha infatti una rilevanza pubblica e civica, per la funzione democratica svolta dagli istituti di conservazione. Un tema non sempre percepito dalla pubblica opinione e, quindi, non sempre governato con la dovuta urgenza e sensibilità.
Archivi e biblioteche sono una componente essenziale del nostro patrimonio culturale, ma anche e forse soprattutto strumenti di affermazione e custodia dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione.
*Francesco Borghero è dottorando di ricerca in Studi Storici dell’Università di Firenze e Siena