Arrivano i lupi (a Firenze). Ma sicuri ci sia da ridere?

di Tomaso Montanari

Dopo quelle di Napoli, anche le piazze di Firenze sono invase dai lupi. Lupi enormi: cento minacciosi esemplari fusi in ferro, del peso di 300 chili ciascuno. Sono stati plasmati dall’artista cinese Liu Ruowang e girano l’italia per conto di una galleria d’arte milanese e sotto il patrocinio del governo cinese, per festeggiare i 50 anni di relazioni diplomatiche tra Italia e Cina. All’inaugurazione fiorentina, alla presenza del console generale della Repubblica Popolare, i sindaci di Napoli (Luigi de Magistris) e di Firenze (Dario Nardella) e il direttore degli Uffizi (Eike Schmidt) si sono fatti fotografare mentre abbracciano e cavalcano i lupi, sorridendo a tutta dentatura. Scatti che hanno fatto il giro della Rete, suscitando più di una perplessità.

Diciamo subito che, sul piano formale e su quello concettuale, non si tratta esattamente di un capolavoro. Una efficace trovata pubblicitaria, semmai. In ogni caso, la comunicazione ufficiale dell’evento ha subito chiarito che i lupi hanno un significato “progressista”: rappresenterebbero la reazione violenta e minacciosa della natura, aggredita e distrutta dall’uomo. Una ferrea allegoria del Covid, insomma: e, come il Covid, arrivata dalla Cina.

Se questa è la chiave di lettura, c’è da ridere di fronte al Covid? Ma il problema è decisamente più serio. Perché in effetti siamo di fronte alla (mediocre) promozione di un prodotto tremendamente serio: e quel prodotto è la Cina, con tutto ciò che significa, regime compreso. E mentre in Italia ci si sbellica dalle risa abbracciati ai lupi cinesi, tutto il mondo libero si interroga su quale linea tenere nei confronti di quello che appare sempre più chiaramente come il genocidio degli Uiguri (i turcofoni di religione islamica insediati nel nord-ovest della Cina). Il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha dichiarato: “Sono in atto violazioni gravi e significative dei diritti umani. Noi stiamo lavorando con i nostri partner internazionali su questo. È profondamente inquietante”. E uno dei più celebri presentatori della Bbc, Andrewmarr, ha potuto mostrare in diretta all’ambasciatore cinese a Londra le immagini dei campi di concentramento in cui gli Uiguri vengono torturati, plagiati, sterilizzati a forza. “Ambasciatore – queste le parole in diretta di Marr – queste scene potrebbero ricordare la Germania degli anni Trenta”.

Sappiamo bene come andranno le cose, sul piano politico: andranno come sempre. I governi occidentali si barcameneranno tra dichiarazioni di blanda condanna, imposte alle loro rispettive costituzioni, e gli affari con la Cina, che nessuno nemmeno proverà a toccare. Bene (cioè male): questa è la politica. Ma la cultura? Davvero dobbiamo rassegnarci a prestare le nostre piazze alla (mediocre) propaganda di un governo che fa cose che ricordano quelle della Germania di Hitler? Davvero dobbiamo piegare anche l’arte – libera, ribelle e critica per natura – alle ragioni della propaganda, e degli affari?

È un problema assai più generale: gli Uffizi, per esempio, stanno organizzando la spedizione di decine di Botticelli a Hong Kong (un’iniziativa collegata all’ormai famosa fotografia di Chiara Ferragni di fronte alla Venere), in accordo con le istituzioni cinesi contro cui protestano gli studenti della metropoli. Intervistato dalla Fondazione Feltrinelli, Joshua Wong – uno dei volti di quella protesta – ha chiesto all’italia di non pensare solo agli scambi commerciali con il mercato cinese, e di schierarsi invece le ragioni della dignità umana.

Gli Uiguri non hanno neanche la voce per chiedercelo. Ma noi lo sappiamo cosa rappresentano, davvero, quei lupi di ferro: e non dovremmo avere davvero nessuna voglia di abbracciarli, ridendo.


Articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”, 22 luglio 2020

Fotografia di Almaak da Wikimedia Commons