La Maestà e il marketing nella storia di Mr. Uffizi

di Tomaso Montanari

“Credo che il momento sia giunto: i musei statali compiano un atto di coraggio e restituiscano dipinti alle chiese per i quali furono originariamente creati. Il caso forse più importante di un capolavoro sottratto al suo contesto originale si trova proprio agli Uffizi: la Pala Rucellai di Duccio di Buoninsegna, che nel 1948 fu portata via dalla basilica di Santa Maria Novella”. L’ultima sparata del direttore degli Uffizi Eike Schmidt, evidentemente a corto di idee per gestire la difficile fase post-Covid, è particolarmente grave. Perché riesce a ridurre una questione seria e delicata a chiacchiera da bar, a un annuncio da assessore di terza fila.

È vero: esistono opere oggi musealizzate che si potrebbero riportare nel contesto originale, sanando una ferita e riconferendo significato a complessi oggi disarticolati e inerti. Per rimanere agli Uffizi: si dovrebbero utilmente ricollocare sulle loro pareti della Villa Carducci a Legnaia (oggi nella periferia fiorentina, di proprietà del Polo Museale Mibact della Toscana) gli affreschi degli Uomini illustri di Andrea del Castagno. Un organismo, seppur lacerato, tornerebbe a vivere, e ad attrarre visitatori in una parte di Firenze singolarmente trascurata dal turismo. Ma non farebbe notizia, evidentemente.

Al contrario, citare la celeberrima Maestà di Duccio e il suo possibile ritorno nell’altrettanto celebre basilica di Santa Maria Novella a Firenze significa cercare solo il clamore mediatico, senza alcuna coscienza dei problemi storici in cui ci si infilerebbe. La prima conseguenza sarebbe quella di distruggere la Sala delle Maestà degli Uffizi, dove la tavola di Duccio è al cospetto di quelle di Cimabue e Giotto, in un dialogo altissimo e straordinariamente ispirante. Una di quelle musealizzazioni che, sì, permettono di compensare la dolorosa perdita dei contesti originari, diventando essa stessa un contesto storico. Tanto che quella sala che ora Schmidt vorrebbe distruggere – sala progettata da Ignazio Gardella, Giovanni Michelucci e Carlo Scarpa – è un caposaldo della museologia del Novecento.

Ma, si dirà, questa perdita sarà compensata dalla ricomposizione del contesto originario: no. Per la semplice ragione che non sappiamo dove si trovasse quell’opera, all’interno della chiesa: probabilmente sul grande tramezzo di legno che divideva la chiesa dei laici da quella dei frati. E che oggi però è scomparso. Prima nel transetto destro o nella Cappella dei Laudesi (poi Bardi). Poi, dal 1591, nella Cappella Rucellai, che le dà il nome. Nessuno di questi luoghi ha l’aspetto che aveva quando ospitò la pala, e rimetterla in uno qualunque di quei luoghi sarebbe arbitrario. Raccontare al grande pubblico che sia possibile riparare al danno di un capolavoro “sottratto al suo contesto originario” significa accreditare un falso storico: quella grande, magnifica chiesa è stata trasformata profondamente prima nel Cinquecento e poi nell’Ottocento, e nessuno ha una macchina del tempo capace di riportarla alla fine del 1.200. Insomma, siamo al marketing della storia: un tanto al chilo.

Ma c’è perfino di peggio. Schmidt si presenta come il generoso direttore che si spoglia di un capolavoro definito da lui stesso “inamovibile, per il suo carattere identitario” del suo museo. Ma non dice che, in questa stessa sceneggiata, gioca anche un altro ruolo: perché come presidente del Fondo Edifici di Culto del ministero degli Interni che possiede la chiesa di Santa Maria Novella, egli accetta felice la generosa ‘donazione’ degli Uffizi. Nella immaginaria cerimonia di passaggio, Schmidt consegnerebbe la Maestà di Duccio a Schmidt. Insomma, non un disinteressato convincimento scientifico, ma un clamoroso conflitto di interessi: che meriterebbe una sanzione da parte del ministero per i Beni Culturali.

Schmidt deve la guida del Fec a Matteo Salvini. E mentre Salvini brandisce rosari e bacia madonne, Schmidt decide di spogliare (simbolicamente) lo Stato a favore della Chiesa, affermando che riportare Duccio su un altare purchessia sarebbe “un bellissimo modo per celebrare, nel 2021, gli 800 anni dell’insediamento dell’ordine domenicano in Santa Maria Novella, all’insegna di un dialogo sempre più fertile, culturale e spirituale, tra Stato e Chiesa”. Peccato che Santa Maria Novella non sia più una chiesa in cui si prega, ma un sito storico da visitare a pagamento. Non un museo, si badi, perché non ha né direttore né comunità scientifica: ma questo ormai non va più di moda nemmeno nei musei veri.

La morale è molto triste: proprio ora che ci vorrebbero visione, progetto, vera solidità culturale, il patrimonio artistico della Nazione è ridotto a proscenio per le esibizioni mediatiche di modesti apprendisti stregoni.


Articolo pubblicato in “Il Fatto Quotidiano”, 1 giugno 2020

Immagine in evidenza da Wikimedia Commons: Duccio di Buoninsegna, Madonna Rucellai (part.), 1285