Sandro Roggio, La speculazione contro la tutela unitaria del patrimonio culturale del Paese

Non è difficile immaginarlo: la propensione secessionista di regioni ricche crescerà proporzionalmente ai guai prodotti dalla crisi economica, tanto più nel processo decisionale

sui beni culturali. La smania di svincolare i procedimenti amministrativi – SbloccaItalia, Sì-trivelle, ForzaTav e via elencando – è il frutto dell’insofferenza di chi tratterebbe come mercanzia tutto ciò che resta della storia della cultura e dei paesaggi del Paese. Un sentimento alimentato da speculatori nemici di chi tutela questa magnifica eredità. Memorabile la posizione di Renzi & C. contro le soprintendenze da rendere  inoffensive, rilanciata nel nuovo corso a guida Lega. L’incertezza è su modi e mezzi, ma l’obiettivo è chiaro e trasversale: l’autonomia  per avere le mani libere.

Una devoluzione bislacca dei poteri indicati nell’art. 9 della Costituzione,   produrrebbe     lo sbriciolamento progressivo dell’identità del Paese, mortificando lo spirito collettivo di adesione al luogo Italia, che non si fonda su sangue,  colore della pelle,   lingua,   fede. Ci si riconosce in un territorio per cultura e non per nascita, lo ha scritto più volte in modo inequivocabile Tomaso Montanari.

I beni di cui si parla   – già distinti nelle leggi Bottai del 1939 –  sono di due tipi:  storico-artistici e paesaggistici. La cultura materiale d’Italia si fonda su questa doppia coscienza di luogo. Così la Costituzione è un impiccio per quelli che vorrebbero saccheggiare la superstite  ricchezza d’Italia come se si trattasse di  spartirsi suppellettili private  e non il patrimonio  che dappertutto ci invidiano. Ci sono rilevanti interessi economici  dietro l’idea  di  sminuzzare il potere dello Stato  nella tutela dei BBCC,   con l’ipotesi di trovare – questo è il punto –  un atteggiamento più  lasco nelle regioni e nei comuni svincolati da pareri ministeriali. Obiettivo diverso da quello di decentrare oculatamente la gestione- valorizzazione dei beni comuni, con opportune deleghe di compiti a regioni e comuni, ma con la supervisione dei soprintendenti. Leggendo tra le righe dei provvedimenti annunciati,  si capisce che la mira  è  un’altra: destabilizzare l’esercizio unitario delle funzioni di tutela.

Si pensi al principio di sussidiarietà nella riforma del Titolo V della Costituzione e ai  tentativi di forzarne il senso attraverso il richiamo alla necessità  di assumere  le decisioni il più vicino possibile ai cittadini  per  incrinare  la  prerogativa statale nei compiti  previsti dall’art. 9 della Carta.

Esemplari sono, in tal senso, le vicende della manomissione delle coste sarde – tra i beni preziosi  del Paese. Dal 2006 adeguatamente protetti   grazie al Codice dei BBCC e al  piano paesaggistico con il timbro del Mibact: un  utile e irrinunciabile incrocio di sguardi vicini e lontani. L’unico modo per  mettere bene a fuoco e rendere riconoscibile  l’interesse translocale: piccolissimi comuni sardi (qualche centinaio di abitanti) hanno  in  custodia una dozzina di km di spiagge e scogliere d’interesse per una  più vasta comunità, non solo regionale.  Non è difficile capire che se le decisioni sulle sorti di quei luoghi spettassero in esclusiva a quelle popolazioni, verrebbe meno la rappresentazione di altre attenzioni su quei valori. Ecco: non solo le scelte su Venezia – l’esempio mainstream – meritano una vasta condivisone. Ma su tutti i beni culturali indicati dal Codice. La pianificazione paesaggistica sta in questo solco: rispecchia la necessità di  corrispondere alle attese del Paese e non solo di questo o quel gruppo sociale  in relazione al “proprio” territorio.  La conservazione del paesaggio italiano immaginata nel secolo scorso dal legislatore, si pensi a Giuseppe Galasso,  non può essere assicurata da  una sequenza di scelte luogo per luogo  a ridosso di negoziazioni immobiliari e spesso con interferenze di faccendieri apolidi.

Insomma, abbiamo convenuto che la  tutela di beni culturali non è compito attribuito in via esclusiva a nessuno dei soggetti in causa. Meglio il governo sussidiario, appunto,  proprio per arrivare a una sintesi delle valutazioni da vicino-da lontano. Il principio di sussidiarietà  allude all’interesse comune che si realizza attraverso una pluralità di apporti in modo solidale (“subsidium” =  le milizie a soccorso di quelle schierate nella prima fila) e consente la sorveglianza della comunità nazionale.

 

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