Marta Greco, Scuola del Patrimonio: l’occasione persa

A marzo di quest’anno prenderà avvio il primo ciclo del biennio della Scuola del Patrimonio del Mibact, il cui fine programmatico dichiarato è “formare alle funzioni

direttive profili dalle competenze tecnico-scientifiche nel settore del patrimonio e delle attività culturali e del turismo”.
Nello specifico campo dei Beni Culturali fino ad oggi non esisteva un corso destinato esplicitamente a formare alle funzioni direttive: dalle Scuole di Specializzazione nascono tecnici esperti, dai Dottorati di ricerca i futuri docenti universitari.
Oggi a dirigere Musei e Soprintendenze sono quindi dottori di ricerca e specializzati, spesso impegnati anche in cattedre universitarie e con alle spalle diversi anni di esperienza all’interno dello stesso Ministero che, adesso, li considera inadeguati.

Questo senso di inadeguatezza, generato certamente dall’analisi delle condizioni attuali e dal confronto con l’estero e con modelli di gestione più fruttuosi e redditizi, ha portato a due ineccepibili conclusioni: gli attuali profili direttivi non hanno le giuste capacità per fare fronte alle nuove esigenze in ambito di tutela e valorizzazione; la perdita di qualità dell’università fa si che le professionalità che ne derivino siano incomplete e scarse. C’è dunque bisogno di un perfezionamento mirato alla formazione dei futuri livelli dirigenziali, tale perfezionamento servirà finalmente a introdurre nel sistema una nuova visione di gestione e a immettere nelle vene degli studiosi la linfa della multidisciplinarietà e dell’internazionalismo.

Si può di ipotizzare, con un margine di dubbio purtroppo trascurabile, che tra qualche tempo, a occhio tra due anni, quando gli studenti del primo biennio si troveranno al termine per loro percorso, il titolo di diplomato alla Scuola del Patrimonio sia considerato esclusivo o comunque preferenziale per l’accesso ai concorsi a funzione direttiva banditi dal Mibact. D’altra parte, se così non fosse, tutta l’operazione non avrebbe molto senso.

Vale ancora la pena chiedersi il perché del significativo disappunto degli addetti ai lavori? No, ma vale la pena riflettere sulle motivazioni-slogan che reggono l’intero castello, per tastarne la solidità.

La buona gestione passa dall’interdisciplinarietà. Questo è un principio noto a tutti gli studenti di beni culturali, se non altro perché viene a loro ripetuto e insegnato (attraverso piani di studio compositi e laboratori della più varia natura) dalla laurea alla specializzazione e al dottorato.
Ma per quanto l’approccio multidisciplinare sia sempre più diffuso a tutti i livelli di formazione, e nonostante le università propongano Scuole dottorali interdipartimentali e Scuole di Specializzazione con partenariati all’Estero, niente sarà mai ai livelli della Scuola del Patrimonio.

La buona gestione necessita di pratiche di svecchiamento. L’improcrastinabile esigenza di nuovo è espressa nero su bianco nel bando, nel quale si legge che può accedere alla Scuola del Patrimonio solo chi, al netto degli altri requisiti richiesti, non superi il 39esimo anno di età. A reggere questo criterio è l’idea che una nuova visione del Patrimonio si costruisca con i giovani dunque per questo motivo la mannaia cade severa ma inevitabile.
In linea esclusivamente teorica la cosa sarebbe anche comprensibile, se non fosse che in Italia tutto ciò non ha alcuna aderenza alla realtà e dunque decine e decine di ottimi studiosi di quarant’anni –un’ età matura per svolgere consapevolmente una mansione direttiva – con un dottorato di ricerca, una scuola di specializzazione, magari qualche anno di esperienza all’estero e una maturata pratica sul campo si ritroveranno tra poco fuori dai giochi. Ma ciò non è materia che interessi il Mibact.

Scuole di dottorato e Scuole di Specializzazione sono quindi inadeguate a formare profili direttivi. Questa è una logica deduzione. Non sarebbe segno di onestà intellettuale affermare che per entrambi i percorsi non esistano degli ampi margini di miglioramento, in particolare per le Scuole di Specializzazione. Si sarebbe potuto aspettare l’esito dei lavori della Commissione Interministeriale di Mibact e Miur, finalizzata proprio al miglioramento dei percorsi formativi, invece si è ceduto alla tentazione di prendere una scorciatoia. Peccato che ciò porti con sé un’innegabile e ingiustificata dequalifica dei livelli di formazione post-laurea.
Motivi per preoccuparsi ce ne sarebbero.
Il primo è che questa brillante strategia ministeriale non sta solo, per così dire, tentando di smaltire goffamente un paio di generazioni di studiosi, ma agisce nella totale mancanza di riconoscimento del valore delle professionalità già formate, e ignora – consapevolmente o meno – che ciò sia una perdita, enorme, per tutto il sistema.
Il secondo è che ci si aspetterebbe una presa di posizione del mondo accademico, investito dalla questione così come lo sono i professionisti ai quali la Scuola sarebbe destinata o preclusa.
Il terzo riguarda la capacità di reazione delle associazioni di categoria. Diventa indispensabile in questi frangenti far fronte comune con risposte adeguate e non portare avanti proteste peregrine contro i criteri di ammissione o i requisiti d’accesso, o affinché il titolo di diplomato alla Scuola del Patrimonio sia equiparato a quelli post-laurea già esistenti: ad accettare con riserva, o patteggiare condizioni imposte si rischia di far passare un pericoloso sottotesto e cioè che a chi lavora nei beni culturali, primo a poi, si può far accettare di tutto.
A dispetto della sua definizione ufficiale c’è da chiedersi cosa sia, o meglio, cosa rappresenti la Scuola del Patrimonio.
Si deve forse credere che sia tutta una farsa da cui in pochi traggono profitto, come alcuni pensano riferendosi alle questioni che hanno visto coinvolte le più alte nomine già negli anni scorsi?
È invece la realizzazione maldestra e frettolosa di un progetto iniziale che in origine era diverso?
È qualcosa di cui non preoccuparsi, che presto svelerà la sua inconsistenza e forse tra dieci anni leggeremo che si è trattato di una parentesi chiusa nella politica della gestione dei beni culturali? Ancora non lo sappiamo.
Sappiamo cosa avremmo voluto che la Scuola del Patrimonio fosse e invece, purtroppo, non è: un’occasione dedicata alla formazione continua, sia per il personale del Mibact che per chi lavora al di fuori del Ministero, per garantire l’aggiornamento, per migliorare le performance di tutto l’organico, per innescare dall’interno una necessario rinnovamento dei modelli di gestione dei beni culturali in Italia.

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