I dossier di Emergenza Cultura: il Piemonte

Continuiamo nella pubblicazione dei Dossier regionali sullo stato di caos e di paralisi nel quale le strutture della tutela sono state gettate dai ripetuti e scoordinati interventi del governo Renzi e del ministro Franceschini. A partire dalla separazione secca fra valorizzazione (privilegiata) e tutela (indebolita), e da quella, conseguente, dei musei dai territori dai quali (tranne la Pinacoteca di Brera) sono stati storicamente originati. Questi Dossier- è la volta del Piemonte – documentano con dati e cifre alla mano quanto queste cosiddette “riforme” operate a colpi di decreti o magari di emendamenti siano state improvvisate e quindi risultino devastanti, in modo permanente.

Dossier/ Piemonte

Sulla rete di tutela si è abbattuto un autentico rovinoso tsunami. 

Gli organici già impoveriti, travolti da una ristrutturazione confusa e priva spesso di motivazioni storiche e culturali. La tutela trattata alla stregua di un titolo “tossico” di cui sbarazzarsi.

Forte di una tradizione fatta di attenta cura dei beni culturali, di costante attività di studio del patrimonio sempre e costantemente intrecciata con le necessità della tutela territoriale, di costruttivi rapporti di collaborazione istituzionali con gli Enti locali, le Diocesi, le Fondazioni, le associazioni e i singoli cittadini, l’ex Soprintendenza ai beni Storici e Artistici del Piemonte è stata travolta dagli tsunami “riformisti”. Gli uffici di Torino hanno cercato di far fronte alle nuove, impattanti esigenze organizzative delle riforme ancora in corso, rispondendo con abnegazione e spirito di servizio alle necessità della collettività senza interrompere, neppure per un giorno, il flusso delle pratiche e l’attività istituzionale: da alcuni mesi, però, con i nuovi accorpamenti di territori e di competenze, si è aperto uno scenario di ulteriori cambiamenti che ha di nuovo costretto a un ennesimo confuso e pasticciato punto e a capo. Proprio da questi uffici vengono buona parte dei pensieri che seguono, di cui chi scrive è solidale portavoce.

In via di sparizione gli storici dell’arte

Il Piemonte soffre ovviamente di ricadute generali: creare le nuove Soprintendenze miste ha voluto dire nella quasi totalità dei casi l’eliminazione dei Soprintendenti storici dell’arte, con conseguente riduzione o abbandono di tutte quelle tematiche concettuali e tecniche che tali figure incarnavano specificamente. Già oggi i superstiti storici dell’arte sono rimasti senza guida, senza referente scientifico decisionale, e a poco a poco la prevalente gestione di tipo “architettonico”, fosse pur fondata su ogni forma di buona volontà, vedrà esaurirsi lo specifico pensiero storico artistico, la specifica prassi di tutela e restauro sulle cosiddette competenze miste, come stucchi e affreschi; per quanto concerne i beni mobili (pittura, scultura, e tutti i cosiddetti oggetti d’arte), con numeri di organico ridotti quasi allo zero, il rischio è che non se ne occupi nessuno, o che gli architetti li incorporino in uno sguardo per forza di cose frettoloso e privo di sostanza storicamente fondata. Grave rimane il sospetto che dalla tutela del territorio si voglia eliminare proprio la storia dell’arte, in quanto disciplina caratterizzata da tradizione di pensiero orientativo e metodologico, ancoraggio agli studi storici e minore compromissione con la libera professione e i contatti col mercato e il potere. Solo la conoscenza specialistica può guidare l’esercizio consapevole e critico della tutela. I nuovi dirigenti impareranno, si dirà: ma intanto a farne le spese sarà il patrimonio culturale. Il confronto con le altre discipline è sconcertante. I Soprintendenti storici dell’arte non ci sono quasi più. Nelle nuove 39 Soprintendenze, la maggioranza delle poltrone vanno agli architetti, ben 20; 12 Soprintendenti sono archeologi, solo 7 storici dell’arte.

Per 5 storici dell’arte 5.000 Kmq a testa

In questo nuovo panorama, ancora più sconcertante è tuttavia la pianta organica dei funzionari storici dell’arte in Piemonte, che in prima battuta prevedeva cinque unità per tutto il territorio: 5000 km2 a testa per 1200 Comuni, Torino compresa. Migliaia di monumenti, chiese, palazzi antichi, musei su cui esercitare la tutela e l’alta sorveglianza dei restauri di dipinti, sculture, affreschi, arredi, seguirne la catalogazione, curare mostre scientifiche, valutare l’interesse culturale delle opere d’arte, promuovere la conoscenza diffusa della storia dell’arte sul territorio. Una distribuzione di tecnici così esigua da rendere impossibile svolgere i compiti della tutela. In verità ancor oggi non si riesce a capire quale sia il numero degli organici degli storici dell’arte in un’indicibile (e indecente) sarabanda di numeri che cambiano di giorno in giorno, di ora in ora in un paradossale rincorrersi di voci di corridoio, di chiacchiere sindacali, di pettegolezzi ministeriali, di vaniloqui politici a riprova della scandalosa confusione in cui sono precipitati i vertici ministeriali e lo staff di Franceschini.

Ma con la “riforma” quasi tutti nei Musei…

La riforma prevede di collocare gli storici dell’arte quasi tutti nel museo, ritenuto “il luogo della cultura” per eccellenza. Separare i musei dal territorio è stato infatti il peccato originale della riforma stessa e la motivazione, sappiamo bene, si fonda su una concezione mercantilistica dei beni culturali che non ha nessun senso dal punto di vista economico, perché nessun museo al mondo si regge esclusivamente con i propri incassi. E quale sarà, in questo scenario così progressista e luminoso, la funzione dei musei per la formazione culturale e la crescita civile dei cittadini, ora che ci si è liberati dei vecchi musei, polverosi e tristi? Non è dato sapere, né capire. Ma in Piemonte questa scollatura rischia di diventare esiziale.

Del resto al Piemonte si è sempre guardato come a un laboratorio di modelli operativi e gestionali per i beni culturali, specie in rapporto alle fondazioni del Museo Egizio, dei musei civici di Torino, della Reggia di Venaria Reale. Ma a fronte di questo interesse, la spina dorsale degli uffici di tutela riceve attenzioni nulle o di segno opposto, tanto da far pensare che sia ritenuta irrilevante o addirittura dannosa. La deriva di una malintesa valorizzazione museale è peraltro già evidente nel corso recente di Palazzo Madama a Torino, dove la Presidenza della Fondazione Torino Musei, approfittando del periodo di avvicendamento tra i  direttori e in assenza di comitato scientifico, ha avviato un riallestimento sconclusionato delle sale dedicate al Sei-Settecento, di fatto mortificando la collezione senza uno straccio di progettualità scientifica, e in parallelo promuovendo mostre di minimo o nessuno spessore e nessun rapporto col museo, ma ritenute accattivanti per un pubblico evidentemente considerato assai boccalone (come quella su Marilyn Monroe, che sconfinava nel mero feticismo). Per fortuna Patrizia Asproni (vedi appendice ndr) è stata defenestrata dalla giunta guidata da Chiara Appendino prima che mettesse in atto folli propositi da Dynasty mediopadana come la realizzazione di un lounge bar nel sottotetto di Palazzo Madama, tagliandone le capriate secentesche: ma non si è purtroppo arrivati in tempo a impedirle di uccidere per inedia la Biblioteca di Storia dell’Arte dei Musei Civici, ospitata presso la Galleria d’Arte Moderna, una delle più ricche d’Italia, ormai ferma da anni negli acquisti dei volumi e negli abbonamenti alle riviste. Ma è almeno positivo che la riduzione dei servizi avesse suscitato nel 2015 una mobilitazione che aveva saldato studenti e studiosi. Una reattività forse insolita in una città che ha fama di lavorare a testa bassa senza lamentazioni, ma che evidentemente non può accettare una contrazione di diritti elementari, a cominciare da quello allo studio e alla ricerca. E che meriterebbe una vera, grande biblioteca per i beni culturali. Gli accorpamenti delle Soprintendenze avrebbero potuto generare un moto virtuoso in questa direzione, ma nulla è finora stato fatto al riguardo.

Alla Venaria non c’è più un Comitato scientifico

La stessa attività di un complesso molto visitato come la Reggia di Venaria (proprietà statale, ma gestita da una fondazione) risente di una deriva che per inseguire i grandi numeri, e offrire comunque un richiamo appetitoso a un pubblico evidentemente percepito come assai stolido, sembra poter rinunciare tanto alla qualità quanto a un minimo di riflessione critica. Si sono così alternate, negli ultimi tempi, mostre di notevole rigore (e bellezza), come quella su Raffaello, a operazioni antiquariali prive di dignità scientifica, come quella sui Brueghel. Se si tiene conto che, di fatto, un comitato scientifico di Venaria non esiste più, ben si comprende come la sovraesposizione di mostre quanto meno discutibili, per tacere di una comunicazione non proprio elegante (tipo lo slogan “fatti la corte”, con dama settecentesca che strizza l’occhio), rischi di oscurare la propositività culturale più genuina della residenza, che davvero le procura fama internazionale: alludo al Centro studi diretto da Andrea Merlotti, che promuove ricerche, convegni e pubblicazioni sulle corti italiane ed europee e fa parte del Court studies forum, organizzazione che raccoglie i principali centri studi mondiali di storia delle corti. È grazie a realtà come questa che luoghi come Venaria non sono soltanto contenitori di mostre importate. Ma per quanto tempo ancora? Lo spirito dell’operazione condotta in porto da Franceschini trova dunque, pure in Piemonte, una condivisione larga anche fuori dalle strutture ministeriali propriamente dette.

Separato dalla propria terra, il museo si avvia a diventare un’isola nel vuoto, staccata dalla città e dai cittadini, affidata alle cure di storici dell’arte costretti a occuparsi di valorizzazione, ovvero organizzare “eventi”, istruendo pratiche di concessioni dei luoghi per società private e ricchi signori che vogliono fondali scenografici, “set” per pubblicità di prodotti, feste, sfilate, spettacoli. I luoghi della cultura come luoghi da consumare, in tutti i sensi. Privati dello spessore e della complessità della storia e della bellezza, diventano apparati effimeri di altre realtà.

La conseguenza di questa lucida ma deformata visione della cultura, nel caso specifico del Piemonte, è il paradosso della sovrastima degli organici destinati ai musei rispetto ai compiti che dovranno svolgere (la valorizzazione, soprattutto): otto storici dell’arte per il Polo Museale del Piemonte e sette per i Musei Reali di Torino.

Il Polo Museale del Piemonte comprende solo otto luoghi della cultura: va da sé che si è progettato di assegnare uno storico dell’arte per monumento: uno per il Forte di Gavi, uno per l’Abbazia di Vezzolano, uno per il Castello di Agliè e così via. Senza contare che i suddetti luoghi hanno in organico anche un discreto numero di architetti e che già sono stati assegnati i direttori afferenti al Polo Museale del Piemonte: due architetti direttori e un solo storico dell’arte direttore. Il progetto complessivo di questa operazione (si parla infatti di una futura fondazione che comprenderebbe tutte le residenze, a trazione Venaria) è tanto oscuro da aver indotto  gli  storici dell’arte a tenersi generalmente lontano dalle candidature a questa nuova istituzione, preferendo in genere rimanere tenacemente ancorati ai compiti di tutela e rischiando addirittura di essere forzosamente trasferiti nelle due nuove Soprintendenze create da Franceschini in Piemonte: una ad Alessandria, l’altra a Novara (in precedenza avevano tutte sede a Torino). In realtà in Alessandria non c’è ancora nulla, l’ufficio competente è insediato a Torino.

Gli organici erano già carenti, ora è caos

Non si comprende inoltre perché il Piemonte, già penalizzato dalla cronica carenza degli organici, sconquassato dall’introduzione contemporanea di ben quattro nuovi enti, che ha reso davvero difficile raccapezzarsi con incarichi “a scavalco”, complicati da definire e da onorare, e con rapporti con dirigenti le cui competenze vanno continuamente a sovrapporsi e ridefinirsi, debba essere ulteriormente punito dal trasferimento delle Soprintendenze delle province in sedi che, se fossero attivate, costringerebbero funzionari, tecnici e parecchi amministrativi a spossanti e costosi trasferimenti (ovviamente senza indennizzo) ben oltre i 50 chilometri che la legge ha sin qui previsto; tutto questo mentre nelle altre regioni italiane le sedi dei nuovi organismi rimangono nel capoluogo. Ad esempio, la nuova Soprintendenza unica per le province di Como, Lecco, Monza-Brianza, Pavia, Sondrio e Varese ha sede a Milano; la Soprintendenza unica per le province di Frosinone, Latina e Rieti ha sede a Roma, come la Soprintendenza unica per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale. Non si capisce perché lo stesso criterio non sia stato applicato in Piemonte, lasciando Torino come sede delle diverse Soprintendenze. Invece la Soprintendenza unica per le province di Alessandria, Asti e Cuneo ha sede ad Alessandria, e quella per le province di Biella, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e Vercelli ha sede a Novara.

Nuove Soprintendenze tipo “fritto misto”  

La ripartizione territoriale piemontese presenta incoerenze e incongruità difficilmente sanabili: la Soprintendenza di Alessandria, ad esempio, a cui saranno forse assegnati uno o due soli storici dell’arte, ha competenze su tre province lontane e disomogenee dal punto di vista storico, culturale e geografico. Nulla di più distante, dal punto di vista del passato storico e delle tradizioni culturali, è ravvisabile tra i territori di Cuneo ed Alessandria; il primo è storicamente legato a Torino e ai territori d’oltralpe (basti pensare a realtà come il Marchesato di Saluzzo o il Principato dei Savoia-Acaja che hanno ancora oggi una riconoscibile identità figurativa, o alle “aree di strada” che legano Mondovì, Cuneo e Ceva a Savona, Albenga e Nizza); la provincia di Alessandria, invece, ha sempre gravitato verso Genova e Milano, includendo territori che facevano parte della Repubblica di Genova (Gavi, Ovada e Novi), del Ducato di Milano (Tortona, Alessandria) con altri (il Marchesato di Monferrato) che, invece, rientrano a pieno titolo nelle vicende delle signorie padane. Un simile, folle fritto misto non trova neppure una decente giustificazione funzionale: come mai è stata scelta come sede Alessandria invece di Asti, assai più baricentrica rispetto al territorio individuato? Come si giustifica dal punto di vista logistico e funzionale l’irrazionalità di ufficio distante dalla magna pars dell’area su cui dovrebbe esercitare la tutela? Ciò comporta – stante anche le gravissime difficoltà dei trasporti pubblici, sempre in fase di riduzione – l’impossibilità di effettuare le necessarie missioni ispettive su territori lontani quasi duecento chilometri e privi di collegamenti diretti, perché quasi tutti facenti invece capo a Torino. Oltretutto sono sempre più lenti i rimborsi delle spese di missione, anticipate di tasca propria dai funzionari: l’atteggiamento dell’amministrazione centrale dunque è tale da lasciar pensare che i sopralluoghi siano ritenuti un inutile orpello, invece che il momento centrale della tutela.

Si arriverà ad una Soprintendenza a due teste?

Si dice che le proteste dei sindaci del Cuneese che avrebbero trovato anche un appoggio in seno alla compagine governativa, siano state calmate con la ventilata proposta di istituire uno sportello distaccato in quella provincia: si favoleggia di Racconigi, di Fossano, di Cuneo stessa. Si sta profilando una Soprintendenza bicipite, Cuneo-Alessandria? Ma queste ondate di riforme non avrebbero dovuto diminuire le sedi e i centri di spesa invece di aumentarli? Quali principi di razionalità e di economia possono giustificare questa dissennata mosca cieca che procede a tentoni, attaccando toppe qua e là, disfacendo oggi quanto è stato appena fatto ieri, tutto per calmare gli strilli o accontentare i capricci del politico di turno?

Comunque le tre nuove Soprintendenze, così frammentate, non potranno mai costituire un’unità forte, autorevole, in grado anche di elaborare un pensiero organizzativo e decisionale, né occuparsi di studio e ricerca, con il rischio di diventare presto un mero ente burocratico, un “ufficietto”. Una tale moltiplicazione di sedi poteva forse esser proposta in un momento di pensiero forte, di vera volontà riorganizzativa, con ingenti risorse economiche a disposizione e volontà di incrementare e riorganizzare gli organici e le fonti archivistiche e bibliografiche: proprio tutto quel che manca in queste riforme a costo zero. Invece, l’inevitabile suddivisione di archivi restauri, archivi fotografici e biblioteche consegnerà alle nuove Soprintendenze fonti parcellizzate, incomplete, di scarsa possibilità di utilizzo, senza nessun materiale per capire il pregresso, documentarsi e assumere decisioni. Senza contare la difficoltà oggettiva (per non dire l’insensatezza) di fare a pezzi archivi unitari e coerenti, laddove la logica dovrebbe essere semmai quella di raggrupparli, nel duplice scopo di valorizzarli e conservarli meglio. Intanto l’imponente archivio restauri dell’ex Soprintendenza ai Beni Artistici giace nel piano interrato di Palazzo Carignano,  minacciato dall’umidità.

A ciò si aggiunga che il personale tutto, negli uffici ministeriali piemontesi, è da anni drammaticamente contato. A poco serviranno i funzionari destinati alla regione dal concorsone dei 500, ora in corso, perché c’è un bisogno disperato di tecnici e amministrativi. Ma c’è un altro aspetto, che negli uffici torinesi si avverte con particolare dolore: gli ultimi concorsi per le progressioni economiche hanno valutato corsini e corsetti di poche ore fatti sulle piattaforme Mibact quanto dottorati, scuole di specializzazione, incarichi di didattica universitaria. Per non parlare delle pubblicazioni, neppure prese in considerazione. Prendete dunque una mezza giornata di aggiornamento telematico sulla trasparenza – passata il più delle volte a guardare uno schermo vuoto o ad assistere a un teatrino dell’assurdo con voci che si ricorrono a ripetere ‘Trieste sei in linea? Torino avete domande?’ grazie all’arronzata ciabattoneria dei sistemi informatici del Ministero – e pesate tutto meno di una monografia scientifica, di una relazione a un convegno internazionale o di una docenza all’Università.

Gli addetti ai vari settori mai coinvolti

Un rimaneggiamento così profondo, attuato senza coinvolgere gli addetti al settore, i soli a conoscere direttamente certe criticità, appare frettoloso e gravissimo. Non sembra nemmeno pensabile radunare tutte le competenze archeologiche, storico artistiche e architettoniche in una sola persona, consegnandola  di fatto a una gestione formale, progressivamente svuotata da ogni specificità tecnica. Non si può non cogliere il rischio di un forte indebolimento della tutela: si prefigura anzi un ente riduttivamente burocratico che non potrà impedire i rischi di una sedicente valorizzazione pronta a trasformarsi rapidamente in una sorta di monetizzazione forzata, con gravi rischi per l’incolumità e la conservazione delle opere d’arte e del loro messaggio di cultura e civiltà destinato ai cittadini; per non parlare, dal punto di vista paesaggistico, dei rischi del rapido consumo di suoli che già oggi paiono in progressivo dissesto anche a causa dell’emergenza climatica.

È evidente il deliberato progetto di abbandonare affatto il tessuto figurativo e monumentale italiano, al di fuori dei musei di Stato. Come se si trattasse, per coloro che hanno mutuato tecniche, modelli e obiettivi dal cinismo finanziario della triste scienza, di un credito deteriorato: da gettar via, appunto. Anche in questo il Piemonte rischia di diventare un laboratorio. Questo sì, davvero tossico.

A cura di Fulvio Cervini,  Università di Firenze

 

Le meraviglie delle privatizzazioni

A Torino però è successo nei mesi scorsi un fatto clamoroso che riguarda l’assetto della cultura e dei musei per la parte comunale decisamente fondamentale nel capoluogo piemontese e in genere al Centro-Nord. La nuova sindaca Chiara Appendino ha infatti rimosso, di fatto, dalla carica di presidente della Fondazione Torino Musei un personaggio di punta della Confindustria in campo culturale, la manager nuorese, di formazione toscana, Patrizia Asproni, presidente di Confcultura e teorizzatrice di un passaggio in blocco dei beni culturali, e quindi dei musei, al Ministero dell’Economia e dello Sviluppo e dell’ingresso in massa dei privati nelle gestioni museali.

Patrizia Asproni si era segnalata fra l’altro per aver deciso la mattina del 24 marzo 2015 di chiudere la Biblioteca di Storia dell’Arte per buona parte della settimana. Rimaneva aperta agli studiosi soltanto il venerdì e il sabato mattina. Era l’ultimo atto di una politica di disfacimento del patrimonio librario che negli ultimi anni non ha più visto acquisizioni  (se non per doni e scambi) nè il rinnovo degli abbonamenti alla quasi totalità   delle 244 testate di riviste che venivano a arricchire e ad incrementare gli studi. Questo nella città  di mecenati come Riccardo Gualino e di studiosi come Pietro Toesca, l’Università nella quale studiò  e si laureò il grande Roberto Longhi. Alle richieste di riapertura, con appelli pubblici sottoscritti da docenti, storici dell’arte, studenti, rappresentanti del mondo culturale non solo torinese, Patrizia Asproni non ha mai risposto nè ha voluto incontrare i sottoscrittori degli appelli.

Oltre ad una serie di mostre blockbuster e alla chiusura della biblioteca di storia dell’arte (mandando i bibliotecari a fare i custodi), fra le “meraviglie torinesi” dell’Asproni va ricordato il rifiuto sostanziale del lascito di un grande storico dell’arte, Enrico Castelnuovo, docente alla Normale, a Losanna e a Torino, il quale donava la sua preziosa biblioteca. La motivazione, anche se non esplicitata,  è stata: non abbiamo spazio.  Una logica da supermarket: Asproni, un nome, una garanzia. Ricordatelo perché lo risentirete. Fra i numerosi incarichi, presiede dal 2016 il Museo Marino Marini di Firenze.

Vittorio Emiliani

 

Molto presto pubblicheremo la puntata del Dossier dedicata al Friuli-Venezia Giulia.

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