Chiese chiuse: umanità, sangue, realtà del patrimonio negato

Fabio Grasso

Il libro di Tomaso Montanari Chiese chiuse (Einaudi, 2021) è maledettamente singolare non perché descrive l’importante caso delle chiese e la condizione di clausura di alcune di esse, ma perché di realtà ne contiene davvero troppa. Se, poi, passassimo in rassegna il testo di Montanari cancellando, così come fa Emilio Isgrò, rimarrebbero una serie di parole/pensieri chiave: umanità, sangue, realtà.

Montanari agisce in quel terreno, trascurato sempre dagli storici dell’arte, che viene prima ancora delle singole opere; quello che si scorge tra quelle sue righe, in filigrana, è la storia, prima che la storia sia. Le chiese sono luoghi umani. E lo sono talmente tanto da far capire subito che essi non possono mai essere considerati alla stregua di un museo. Una chiesa, nel senso etimologico del termine, rimane ecclesia, ovvero comunità, e le pietre di cui è fatta e gli altari che le popolano continuano ad essere del popolo.

Chiariamo subito che la condizione di chiusura, riferita nel titolo alle chiese, potrebbe estendersi a molti, se non tutti, i beni culturali nel loro rapporto fra cittadini e patrimonio alla luce della nostra Carta Costituzionale con particolare riferimento all’articolo 9 (prima della recente modifica). Ma le chiese rappresentano la parte più delicata dell’umano nostro patrimonio culturale per ragioni che si scoprono lentamente durante la lettura.

Leggendo Montanari torna alla mente la celebre pianta (1748) di Giovanni Battista Nolli: in quel disegno ciò che colpisce più di tutto è la curiosa bicromia relativa ai pieni degli edifici e ai vuoti, quelli delle piazze e delle strade ma non solo. In quella bicromia, infatti, gli interni (dei cortili dei palazzi privati, pubblici e delle chiese) hanno lo stesso trattamento cromatico, il colore bianco. Una necessità di rappresentazione, è vero, che, però, riusciva a raffigurare un’aspirazione reale, ovvero quella per cui lo spazio esterno fluiva all’interno determinando al contempo una diversità, una variazione sul tema dello spazio pubblico che nel caso delle chiese non diventava mai privato ma, al contrario, una nuova forma, una consistente eresia di quello pubblico. E questa nuova, ma anche antica, forma dello spazio di tutti è anche quella del silenzio, quella pausa dal caos nella vita, sulla quale si intrattiene giustamente lo stesso Montanari.

Nelle parole di Montanari risuonano due tipi di “chiusure”, quella in cui la porta, oggetto-barriera materiale-fisica-tangibile, rimane chiusa; e quella in cui, peggiore umanamente, l’accesso all’edificio sacro è solo apparentemente libero, ma poi si chiude per il pagamento di un biglietto d’ingresso. A questo proposito è utile richiamare, inoltre, un recente saggio a firma di Rossella Rea, già direttrice del Colosseo, la quale ricorda come l’imposizione di un biglietto d’ingresso al primo livello di quel monumento snaturò completamente il rapporto di esso con la città e, più in generale, con i cittadini ovvero coloro che abitano la Costituzione.

Il secondo volto della chiusura, quello che vincola l’accesso all’acquisto di un biglietto, si presenta ancora più drammatico del primo perché allontana lo spazio della chiesa dal suo significato etimologico ovvero, ecclesia: comunità di fedeli. Montanari si pone proprio questo tipo di domande: una chiesa può diventare un museo? Ha senso far pagare un biglietto per accedere a un edificio sacro? Un edificio sacro smette mai di essere tale? Evidentemente no perché l’idea del sacro che è alla base della costruzione, elevazione di un altare così come di un intero edificio è “per sempre”, perché essa richiama il tempo di dio per coloro che credono, e richiama il tempo dell’uomo per coloro che non credono. E le due realtà hanno bisogno l’una dell’altra in quello spazio e al contempo.

Chiaro forse è il senso profondo di comunità; più delicato, invece, il termine ‘fedeli’ perché sottintende una domanda: le chiese sono destinate solo ai fedeli? Evidentemente no e gli artisti non hanno nemmeno la necessità di recitare il Credo prima della progettazione, anzi, viene da dire che il dato compositivo più interessante nasce spesso nel momento in cui il progettista riesce a trasformare l’opera, sia essa architettonica che più genericamente d’arte, in un concreto, tangibile quesito relativo al rapporto con / fra gli esseri umani e la divinità oppure, addirittura, l’essere ateo, agnostico etc.

L’aspetto notevole delle chiese aperte a tutti è proprio nella loro capacità di unire in una sorta di relazione meticcia i pensieri su dio, donna, uomo, creato. L’apertura è il luogo delle domande, quello specchio d’acqua umanissimo dove Narciso non si vede più riflesso e non precipita ma, al contrario, vede oltre la superficialità della sua immagine e si salva.

A rischio “chiusura” è la chiesa di Santa Irene a Lecce. Proprio lei, la tessalonicese che tutela dai fulmini, dal vento, dalle tempeste. Davanti a questa originale, rara messa in scena della sacralità di una santa e della protezione urbana e umana valida per tutti (credenti e non, cittadini e non), c’è da chiedersi quanto sia legittimo (umanamente e cristianamente) far pagare un biglietto d’ingresso così come sembra vorrebbe lasciar fare il Comune di Lecce (proprietario) assieme  all’arcidiocesi locale.

Un esempio, ancora più triste, è quello in cui a disporre la chiusura è il Ministero della Cultura, e nella fattispecie la Soprintendenza ABAP di Lecce, che non consente di fatto l’accesso a un edificio sacro – la chiesa dello Spirito Santo all’interno del complesso che ospita gli uffici ministeriali – appeno restaurato e oramai agibile, ma chiuso addirittura a chi voglia anche solo accedere per redigere un saggio storico dedicato alla chiesa medesima. Un paradosso in barba all’articolo 9 della Costituzione. 

Montanari tocca con mano anche un tema fondamentale legato alla vita del patrimonio culturale, che è quello dei restauri e di tutti quegli interventi, anche nelle chiese, che chiedono a questi edifici l’adeguamento alle ragioni del culto ma non solo. La difficoltà di un intervento di quel tipo, di un “restauro” a volerlo definire così in termini più ampi, è avere la consapevolezza che esiste un limite oltre il quale non è possibile spingerci con i nostri interventi, ma che è anche il ricercare un punto d’inizio di quello che è il nostro rapporto con l’antico. Comprendere dove iniziare il rapporto con una chiesa, un edificio storico, fin dove spingerci, il dove concludere negli interventi sottintende lo studiarne la storia. E non solo quella dell’edificio specifico, ma anche del contesto (sociale, politico, etc.) in cui essa è collocata.


Fotografie di copertina e nel testo di Fabio Grasso. Particolare della pianta di Giovanni Battista Nolli da Wikimedia Commons.

Altri articoli