Teodoro De Giorgio
Trafugare 970 cimeli autentici della Marcia su Roma del 28 ottobre 1922 non è come trafugarne due o tre. Tanto più se si tratta dei labari (stendardi) dei fasci di combattimento custoditi nei depositi sotterranei dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma, l’istituto che conserva la memoria documentale dello Stato unitario, dove – tra le altre rarità – è riposto uno dei tre esemplari della Costituzione repubblicana del 1948 sottoscritti dai padri costituenti.
La denuncia risale a poche settimane fa, per la precisione a prima dell’ingresso del nuovo sovrintendente. Ignoto il momento nel quale è stato perpetrato il furto, che secondo le prime ipotesi potrebbe essere avvenuto in pieno lockdown, forse commissionato da collezionisti nostalgici del Ventennio. L’assenza di manomissioni e tentativi di effrazione insospettisce gli inquirenti. I ladri, infatti, hanno agito del tutto indisturbati da allarmi e telecamere.
La notizia, che ha ricevuto poca, o nulla, risonanza mediatica, non sembra aver scalfito l’opinione pubblica, né i rappresentanti politici, compresi quelli dei partiti di destra. La mole dei reperti, conservata in voluminose casse in legno, fa pensare a un vero e proprio trasloco di proprietà, che da pubblica è diventata – nell’indifferenza collettiva – privata.
È indubbio che a essere stato sottratto è un pezzo della nostra storia. Non dei più edificanti, certo, ma pur sempre un pezzo della nostra storia nazionale, funzionale alla ricerca scientifica e al prosieguo degli studi sull’avvento del fascismo. I labari, cuciti dalle madri e dalle mogli degli squadristi, serbano la memoria viva di quegli anni inquieti, come rivelano i tanti oggetti appuntati e le frasi scritte sulla stoffa. Ecco perché è importante che i reperti non vadano dispersi e tornino nella disponibilità della collettività.
La gravità del furto è tale da far nascere serie, e legittime, perplessità sulla sicurezza dell’edificio e sulla effettiva tutela delle nostre testimonianze documentali. In proposito, siamo certi che all’appello non manchino altri reperti? O che il furto non risalga a molto tempo prima?
Personalmente, ritengo che le disavventure dell’Archivio abbiano avuto inizio nel 2013, quando un’intera ala dell’edificio, nella fattispecie l’atrio d’ingresso, l’aula magna del primo piano e alcuni uffici destinati al personale, venne concessa in uso esclusivo allo scopo di recuperare fondi.
E così, all’interno di quegli ambienti ebbero luogo iniziative che, contrariamente a quanto prescritto dall’articolo 106 del Codice dei Beni culturali e dagli articoli 2 e 5 della Disciplinare per la concessione in uso temporaneo degli spazi dell’Archivio, nulla avevano a che vedere con la cultura: l’apertura di una campagna elettorale; la presentazione italiana della nuova Range Rover Sport, con la bellezza di tre Suv piazzati sullo scalone d’ingresso e uno all’interno dell’aula magna; e, dulcis in fundo, una festa di Capodanno.
Senza contare un mega party privato organizzato nell’ottobre 2014 e poi meeting aziendali, convention, cene e concerti. Ma tanto vale fermarci qui e augurarci che il nucleo dei Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale venga a capo di questa spinosa vicenda e recuperi quanto prima l’intera refurtiva.
Articolo pubblicato su “Huffington Post”, 16 agosto 2020
Fotografia di Maristela Possamai da Wikimedia Commons