Bibliotecari resistenti al virus

di Luca Valenza

Chi conosce e frequenta le biblioteche sa che sono sfibrate, i lavori da fare si differenziano e moltiplicano e il numero dei bibliotecari che ci lavorano cala parallelamente all’investimento pubblico sui luoghi della cultura. Molte biblioteche lavorano a orario ridotto, altre vengono esternalizzate, altre ancora chiudono definitivamente. Almeno una delle biblioteche delle università che abbiamo conosciuto, delle biblioteche di ente locale che amiamo e dei sistemi bibliotecari che frequentiamo, si avvale in parte o in toto di personale esterno, a partita iva, di azienda, di cooperativa sociale, cooperativa di produzione lavoro, e nel migliore dei casi di fondazione, con una varietà di tutele e contratti, fantasiosi e carenti.

Questo personale specializzato, motivato e formato, si trova per necessità a essere sballottato in questo mondo dove a mancare, oltre a un riconoscimento economico adeguato, sono i diritti. Dove non esiste progressione di carriera ma solo un enorme investimento di ore e forze personali per far funzionare al meglio un luogo che è anche un simbolo. I lavoratori fanno un costante aggiornamento che non produce risultati. A ogni bando, a ogni rotazione, si trovano sul filo del rasoio, consapevoli che nella più rosea previsione dovranno iniziare nuovamente tutto da capo, come in un orrendo giro di giostra, e sperare che vada tutto bene; nella peggiore si troveranno con il lavoro di una vita interrotto e costretti a spostarsi magari di centinaia di chilometri. Queste logiche di mercato sono accettate dagli enti pubblici che tirano il prezzo degli appalti all’osso e non hanno coscienza di cosa sia e cosa faccia la biblioteca per la collettività e i bibliotecari per questa. L’ottica imprenditoriale adottata dal comparto pubblico si ripercuote in un modo o in un altro sui lavoratori del sapere che devono sottostare a contratti al ribasso, a stipendi risicati, simil cottimo, pochi diritti, spostamenti continui e frammentazione oraria, in poche parole alla precarizzazione del presente. Aggiungo a questa triste lista che a un impellente turnover generazionale si risponde con sempre meno concorsi e sempre piú esternalizzazioni, aperture con personale non specializzato e chiusure di biblioteche su tutto il territorio nazionale.

Un grosso problema, come per tutto il comparto culturale, è rappresentato dal volontariato. Anni di lavoro, di studio, di sperimentazione vengono vanificati quando un Comune o un ente chiede a dei volontari di farsi carico di un servizio essenziale e delicato come quello bibliotecario, come ogni servizio che ha che fare con la cultura. Il problema non sono i volontari ovviamente, il problema è il sistema. Il lavoro culturale richiede studio, impegno e metodo, è un mestiere a cui va riconosciuta la dignità spesso negata o sottovalutata. Una biblioteca non è solo un luogo fisico, è un collettore di esperienze, un catalogo, memoria, progettualità, libri, gaming, cd, dvd, responsabilità civica, giochi, formazione, informazione, letture ad alta voce, videogiochi, laboratori, digitale, servizi al pubblico, reference, sperimentazione. Elementi differenti ma uniti da un solo filo conduttore: il benessere sociale e culturale di quelli che la attraversano.

Una biblioteca è anche le bibliotecarie e i bibliotecari che la compongono. Anche i lavoratori comunali, seppur maggiormente tutelati a livello di diritti e contratti, lavorano spesso in condizioni precarie. Sovente sono colpiti da una iper burocratizzazione, un’obsolescenza informatica e strutturale e una fisiologica anzianità dell’amministrazione pubblica italiana (stimata dall’Aran per il 2017 a 55 anni). A queste problematicità si risponde con pochissime assunzioni e con un carico di lavoro e di specializzazione sempre maggiore, appoggiandosi per il funzionamento quotidiano a volontari, servizio-civilisti, e tirocinanti. In questo scenario viene a mancare l’effettivo passaggio di consegne, unico modo per progredire in continuità.

E con il virus che succede? Con il virus succede un bel casino. Succede che le biblioteche sono state fra i primi enti pubblici a cessare il servizio. In una prima fase i lavori sono proseguiti incerti a biblioteche chiuse. Successivamente con l’aggravarsi del contagio si è passati al lavoro da casa, agile, furbo, smart, comunque moltissimo. Ma proprio in questa fase di lavoro furbissimo le brutture vengono a galla. In un momento dove il ruolo di mediatori della conoscenza che i bibliotecari hanno diventa fondamentale, in cui l’information literacy è sempre più necessaria, e la lotta alle notizie finte e manipolatorie una questione vitale, la carne viva di questo corpo sociale viene lasciata indietro. Molti lavoratori precari sono costretti a consumare le ferie, a richiedere la cassa integrazione, o dare fondo alle loro riserve accumulate.

A portare a questo però non è un padrone cattivo, ma un ente bigotto. In un momento sociale importante e delicato in cui si parla di solidarietà e unione, dove il lavoro da fare è impellente, è l’ente pubblico che per risparmiare qualche euro lascia a casa questi lavoratori non sforzandosi di trovare nessuna alternativa ed è lo Stato a non essere capace di dare una risposta sociale soddisfacente. A pagarne le conseguenze, come sempre accade, sono gli ultimi che vedono a causa della pandemia il loro futuro ancora più incerto. Dove le logiche di mercato conquistano e determinano tali scelte ci si dimentica che dietro a ogni numero c’è un lavoratore, che dietro a ogni euro risparmiato c’è una persona. Sicuramente ci saranno per l’ente mille motivi, validi o meno, per aver sospeso il servizio, ma il punto è che in una situazione emergenziale, considerando che i lavori da poter fare da remoto sono moltissimi, questa validità ha ancora ragion d’essere?

A spaventare ulteriormente sarà la ripartenza: quando avverrà che forma avrà? In tempi di crisi si tagliano i servizi ritenuti non necessari e la cultura, come l’istruzione, rischia di essere fra i primi servizi a cadere. Ma proprio nella caduta ci si renderà conto che sono i collettori come le biblioteche a salvare la tenuta della società, le frontiere in prima linea del benessere sociale che salvaguardano gli ultimi.

In ogni parte del mondo, a ogni latitudine, le bibliotecarie e i bibliotecari si riorganizzano e reagiscono con grande ingegno, solidarietà, inventiva e spirito comunitario a questo momento di crisi. Fanno rete e si mobilitano con letture per bambini e adulti, favole al telefono, apertura delle biblioteche digitali anche ai non iscritti, mostre e bibliografie tematiche, digitalizzazione di testi, comunicazione aumentativa e alternativa a distanza, podcast, laboratori tematici e servizi di supporto agli utenti. Alcune biblioteche, come quella di Toronto, stanno mettendo a disposizione le proprie stampanti 3d per stampare dispositivi di protezione personale. La New York public library fornisce accesso gratuito e aperto a più di 900.000 immagini digitali tratte dalle sue collezioni. La Beic – Biblioteca europea di informazione e cultura – mette a disposizione una vasta selezione delle opere più importanti della cultura europea e mondiale. La Biblioteca San Giorgio di Pistoia ha inaugurato un appuntamento sulla finanza al tempo del Coronavirus. La biblioteca federata di medicina dell’Università di Torino cura un focus con bibliografie verificate sul Covid-19. Altre puliscono, catalogano e cercano di migliorare i propri servizi. Altre ancora lavorano incessantemente sul debunking e sulla pulizia delle notizie. Una delle parole che più uniscono le biblioteche in tutti i luoghi del globo è il concetto di Rete, rete per navigare, rete per comunicare, rete per catalogare, rete per condividere la conoscenza: è proprio partendo da questo concetto che i bibliotecari danno un loro particolare contributo al problema.

Ci sveglieremo probabilmente da questo sonno venefico ancora più precari, con ancora più problemi e con moltissima difficoltà, ma consapevoli che l’unica risposta che possiamo dare a questa situazione è una risposta comunitaria e collettiva e che un mare di solitudini fanno un frastuono.

Articolo pubblicato in “Jacobin Italia”, 3 aprile 2020

Fotografia di klimkin da Pixabay

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