I predoni dell’arte

Simone Verde

Vero fossile della mentalità ottocentesca, il museo Chhatrapati di Mumbai, una volta Prince of Wales Museum, espone al piano terra la storia naturale dell’India, al piano superiore i capolavori delle civiltà del subcontinente e si conclude all’ultimo piano con le belle arti dell’Occidente. Non è difficile intuire come all’interno del maestoso edificio indo-saraceno dell’architetto scozzese George Wittet la successione delle sale segua ancora oggi una precisa gerarchia razzista. Si parte dal territorio, dalle sue pietre, dalla flora e dalla fauna. Poi, le manifestazioni dello spirito, e cioè le creazioni degli uomini. Dapprima nelle espressioni parziali delle culture autoctone, ancora così legate all’elemento materiale e infine l’empireo, ovvero la pura astrazione dell’Europa colonizzatrice. Se a Mumbai, come in tantissimi altri istituti del Commonwealth, la logica discriminatoria della museologia occidentale è rimasta fissa all’Ottocento, anche in Europa, e malgrado qualche aggiornamento, non mancano esempi.

Ha proprio ragione chi sostiene che il patrimonio culturale ha più a che vedere con il presente che con il passato. Tra questi una brillante studiosa italiana, Maria Pia Guermandi, che ha recentemente dato alle stampe un volume esemplare Decolonizzare il patrimonio (Castelvecchi, euro 18,50), colmando una lacuna storiografica gravissima del nostro paese. In appena 249 pagine, Guermandi riassume trent’anni di dibattito storiografico post-coloniale e mette così in guardia sugli innumerevoli usi abusivi del passato di cui siamo spesso ignari testimoni. A guardarli con occhio critico, in effetti, i più illustri musei europei ancor prima di verità universali sull’uomo, raccontano la mentalità e le ambizioni del periodo storico in cui sono nati: a Parigi, snocciolano le ambizioni francesi a egemonizzare l’Europa; a Londra quelle dei mercanti inglesi a dominare il mondo; a Berlino, le mire dell’amministrazione prussiana a imporre una sua universale superiorità. Anche in Italia i musei e le collezioni pubbliche documentano più la mentalità di coloro che le hanno istituite, dei popoli e delle culture di cui ospitano i documenti. Da noi, la congerie dei musei campanilistici dell’Ottocento, rimasti sostanzialmente inalterati, continua a ritagliare la storia di una penisola da sempre cosmopolita in insieme cacofonico di “territori”, ognuno con una sua scuola artistica locale e con le sue supposte tradizioni, facendo torto a un passato globale e sintomo di un paese che non vuole farsi nazione.

Per tornare al mondo britannico, niente meno che al British Museum di Londra le culture extraeuropee stanno confinate negli scantinati del versante nord dell’edificio. Qui, tra i tanti capolavori razziati, troviamo i celebri bronzi del Benin, capolavori del XIII secolo saccheggiati nel 1897 con la violenza dai soldati britannici. Al piano terra l’Egitto e le grandi civilità del Medio Oriente, al primo piano la Grecia e Roma, a segnare un percorso che si arresta ai modelli classici ma disegna una linea evolutiva che si conclude con le civiltà dell’occidente moderno. Se la gerarchia storica pone più di un problema, cosa dire delle sue implicazioni geografiche? Con una logica a dir poco arbitraria, la civiltà egizia viene ancora oggi espunta dall’Africa e catapultata nel Mediterraneo. Ma la prima unificazione del Nilo non avvenne, nel 3100 a.C., per opera di Menes, faraone proveniente da Tini, nell’Alto Egitto, in mezzo al deserto e agli aridi altopiani, ovvero a ben 800 Km dal Delta?

A partire dal Settecento l’Occidente, servendosi dell’etnocentrismo della storiografia greca, sovrappose l’Africa con il primitivo e associò le civiltà statuali del continente nero ad altre aree geografiche: l’Egitto finì nel novero di quelle del vicino Oriente (Sumeri, Assiri e Babilonesi), nella solita linea evolutiva che porta alla Grecia e a Roma, e da qui all’Europa moderna. A quel punto gli europei andarono a riprendersi quanto gli spettava di diritto. Carri stracolmi di refurtiva, caricati dai soldati o da tombaroli, cominciarono a incamminarsi verso i musei del vecchio continente: ma cosa c’entrano mai la Nike di Samotracia al Louvre, l’Altare di Pergamo a Berlino o i Marmi del Partenone al British Museum? Nulla, se non fosse che qualcuno aveva situato le origini spirituali della civilità europea a Sud. Quando i facchini sballarono le casse con cui erano state trasportate, queste opere meravigliose ritrovarono la luce in città non certo scandite da colonnati o da portici all’antica ma ancora punteggiate in gran parte da guglie gotiche.

L’uso e l’abuso del patrimonio culturale non è, ovviamente, una caratteristica del passato ma, come ci ricorda correttamente Maria Pia Guermandi, una costante universale cui non sfugge il presente e che oggi illustra la salute della democrazia. La mancata restituzione del patrimonio razziato durante il colonialismo è testimonianza di subalternità geopolitiche mai risolte; la crisi dell’UNESCO e i fenomeni commerciali subiti dai siti del cosiddetto Patrimonio dell’Umanità ci raccontano della manipolazione del passato operato dalla speculazione e dalla cultura della finanza; l’affastellarsi/succedersi di nuovi musei aperti in Cina, in Turchia o in Egitto restituiscono la radiografia delle nuove dittature emergenti nel caos del nostro tempo. In Italia, oltre gli sforzi considerevoli delle recenti riforme, un discorso accademico estremamente conservatore e che non ha metabolizzato il dibattito storiografico post-coloniale degli ultimi trent’anni, non racconta soltanto dei conti rimasti in sospeso con il Novecento ma persino con la globalizzazione.


Articolo pubblicato su “Robinson – la Repubblica” il 13 agosto 2022. Fotografia da Wikimedia Commons

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