Maria Francesca Alfonsi
C’è una brutta scusa dietro un orrido, pericoloso, milionario, progetto: il cicloturismo che ormai anche in Italia ha numeri alti di appassionati, 3,5 milioni – secondo le statistiche – anche nella stagione pandemica. Scusa che però non regge: perché, a differenza del ciclista urbano o balneare – il cicloturista percorre le strade zitte, ché attraversano pianori, colline, i lungo fiumi, nel silenzio. Insomma le strade bianche che risalgono seguendo nel rispetto le seni e le fatiche delle terre, che uniscono tutta l’Italia a farci ben caso, mai uguali, in mezzo alla più varia natura certo, e manufatti-radici, pievi, abbazie, borghi così altrimenti raggiunti. Insomma il cicloturismo vuole conoscere così, come d’altronde i camminatori, quali erano per esempio gli amici della domenica di Piero Calamandrei – finché poterono farlo – ricordati ne “L’Aria della libertà” Tomaso Montanari e Nino Crescenti. Le strade zitte sono parte del patrimonio dell’articolo 9.
E invece no. Accade nelle Marche, regione che è piccola sintesi dei diversi paesaggi italiani – costa, collina, montagna vicinissime, e attraversate dalla meraviglia dei secolari mutamenti umani. Le Marche, sintesi di radici e mutamenti, negli ultimi decenni ferita da abbandoni e sperimentazioni pericolose, in laterale silenzio. Oggi le Marche non sono solo la regione il cui il gran parte dell’entroterra più nobile attende, da cinque anni, la ricostruzione – che fa gola a troppi, essendo il più grande cantiere edile del dopoguerra in Europa: è anche l’ex piccolo regno del manifatturiero, mutata – come il suo cuore, Fabriano – da monarchia bianca del “tutti occupati” a capitale di disoccupazione, tra le più alta percentuale in Italia. Ed ecco, nel silenzio della lateralità, la sperimentazione, la brutta scusa: puntare tutto sul turismo, e in particolare investire sul cicloturismo. E per quest’ultimo in pesanti infrastrutture invadenti e inutili, costo alla fine dei conti 50 milioni di euro.
Quando se ne sentì parlare, a tre anni dal sisma del 2016, dall’allora giunta di centro sinistra, a guida Pd, molti pensarono fosse una voce dal sen fuggita: usare gli sms solidali per il terremoto anche per realizzare nell’entroterra piste ciclabili, come un lunga carreggiata. C’erano solo macerie allora in quell’entroterra, ancora oggi ne restano parecchie, seppur – dopo tre che le avevano solo calpestate – il quarto commissario Legnini sembra essersi messo in sintonia con una ricostruzione adeguata, veloce, ma rispettosa delle terre, se glielo permetteranno. Del così vergognoso uso degli sms solidali scomparve comunque traccia. Non scomparve però il progetto, iniziatosi con quella maggioranza, e che prosegue indisturbato con la nuova, Fratelli d’Italia e Lega.
Basta aprire la pagina della Regione: “Le ciclovie delle Marche, linee guida per realizzazione e la segnaletica della rete ciclabile regionale”. 275 chilometri che dalle normali ciclovie lungo il mare – quelle a lato dell’asfalto, e come esso grigie – si inerpicano nelle valli, nell’entroterra, lungo i tredici fiumi, lungo i loro argini. “Parte del sistema della rete ecologica – si legge nel documento – il loro tracciato percorre i corridoi ecologici fluviali, occasione di nuove connessioni verdi, recupero di aree dismesse e degradate”.
Tradotto: significa strade ad accompagnare il corso di fiumi, larghe due metri e mezzo. Nuove strade, nuova pavimentazione, terreno e polimeri, ovviamente sbancando l’argine del fiume fino a 60 centimetri, perché in quella furia ci sono opere idrauliche, correggendo il fiume, proteggendole quelle strade nuove e dunque tagliando il troppo di natura che ha resistito attorno. Strade nuove come un parco urbano lungo decine e decine di chilometri, monotone e sulla carta sempre uguale, con parapetti, panchine, tavoli di area sosta, persino docce. E poi ponti, grandiosi come si dovesse attraversare il Po in auto, presuntuosi, mostruosi. E da lì, qua e là – perché bisogna pur spezzarla la monotonia del fiume – diramazioni verso le strade zitte, con la scusante dei percorsi storici.
Leggo, per esempio, nel contratto di fiume dell’alto Potenza: “Si tratta di integrare i tratti di ciclovie esistenti con nuovi collegamenti che sfruttino preferibilmente sentieri e strade secondarie già esistenti”. E in quell’area ci sono ben sette zone tutelate. Tra le tante domande una la devo pur scrivere: ma nel frattempo l’Italia ha anche abolito la legge Galli che dovrebbe difendere l’argine dei fiumi e la sua biodiversità? Siamo il paese che vive solo di deroghe alle leggi.
Finora per quella scusa sono stati impegnati 18 milioni di euro, tra fondi europei della Regione Marche e fondi propri di associazioni di comuni, molti dei quali sono però legati anche al sisma. Sperimentazione distruttiva nel laterale silenzio della regione, troppi con il capo voltato da un’altra parte. Non servirà al cicloturismo, attirato solo della diversità delle strade bianche, della loro caparbia storia che resiste, e che chiede semmai solo di incontrare lungo quel percorso agroturismo dove rifocillarsi, servizi minimi non impattanti.
Di certo quell’orrida avanzata invece non solo distruggerà definitivamente e diventerà in breve degrado, come le periferie ex industrializzate e abbandonate delle città: renderà ancora più semplice ai fiumi, come tutti i piccoli negli anni maltrattati, uscire dagli argini, troppe volte è già accaduto senza questo ulteriore aiuto. I fiumi si riprenderanno così più facilmente lo spazio che gli è stato sottratto. La distruzione fine a se stessa porta solo macerie, non nuove opportunità di occupazione di cui abbiamo urgente bisogno.
Per favore che qualcuno batta un colpo.
Fotografia da Hippopx.
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Claudio Meloni – FP CGIL