Leonardo Bison
“Diamo i soldi alle imprese per assumere le persone che oggi percepiscono il reddito di cittadinanza. Un’impresa che oggi può permettersi di pagare ad esempio 10 dipendenti potrà averne 15, perché aiutata dai soldi destinati al sussidio” diceva il governatore ligure Toti nell’agosto del 2021. Ma gli enti pubblici stessi paiono dare l’esempio, andando a mettere in conflitto sussidio e lavoro retribuito: quante assunzioni necessarie potrebbero saltare, in settori ad alta disoccupazione, grazie all’impiego integrativo dei percettori di reddito? Una domanda che è il caso si pongano l’attuale ministro Andrea Orlando, ma anche quel Luigi di Maio che quella misura l’ha promossa: senza però dichiarare che avrebbe potuto finire per sostituire bibliotecari, custodi o educatori.
C’è il comune di Imola che l’8 ottobre con una delibera ha “arruolato” i percettori di Reddito di Cittadinanza per lavorare in biblioteche e musei cittadini. C’è il Comune di Agliana che ne cerca per la portineria, le biblioteche e la manutenzione del verde. E poi Montaldo di Mondovì, o ancora Giardini Naxos, solo per restare a comunicazioni e comunicati datati ottobre 2021. Ma la lista di comuni che stanno impiegando percettori di RDC in scuole, biblioteche, musei, verde pubblico, sociale, è sterminata, da Nord a Sud della penisola, da Treviso a Caltagirone. E non solo i comuni. La Regione Abruzzo da mesi li impiega nelle biblioteche e per tenere aperti i musei statali. E poi i percettori di RDC sono impiegati anche negli Archivi di Stato, a Camerino, a Matera, per permettere a queste strutture di rimanere aperte, con il beneplacito della Direzione Generale romana preposta.
I PUC, “progetti utili alla collettività”, nati, sulla spinta delle riforme e della rimodulazione del Reddito di Cittadinanza per tenere lontani dal tanto temuto “divano” ai beneficiari del sussidio, sono diventati legge con un decreto l’8 gennaio 2020: 8 ore settimanali di impegno a servizio del Comune. Le attività dovrebbero, secondo il decreto istitutivo, “intendersi evidentemente complementari, a supporto e integrazione rispetto a quelle ordinariamente svolte dai Comuni e dagli Enti pubblici coinvolti”. Ma è ormai chiaro, bando pubblico dopo bando pubblico, che stiano già diventando altro: un ennesimo modo per fornire manodopera gratuita (il sussidio è somministrato a livello centrale) alle amministrazioni pubbliche bisognose di personale e risorse. Manodopera che non può sottrarsi, per il timore di perdere l’essenziale sussidio.
Ancora una volta, come è stato per altre misure “tappabuchi” simili, come volontariato e servizio civile – usati da tempo come serbatoio di manodopera più o meno specializzata che finisce a integrare quella della P.A. -, sono i settori della cultura, del sociale e dell’ambiente a fare da territorio di sperimentazione: settori caratterizzati da professionalità poco note al grande pubblico, ma anche da una bassa regolamentazione delle stesse, che porta a sfruttamento diffuso, salari medi sotto i 7 euro orari, e sistemico ricorso al lavoro gratuito come sostitutivo di quello retribuito. Da mesi una parte della politica e dei ceti industriali rappresentati da Confindustria chiedono di usare il RDC per fornire alle imprese private lavoratori pagati dalle casse pubbliche.
Articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il 18 ottobre 2021. Fotografia di Cinzia Sartoni da Wikimedia Commons.
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