Fabio Grasso
I cosiddetti social sono diventati, soprattutto in questi due ultimi anni, sempre più presenti nella comunicazione istituzionale, anche culturale. Il problema è che su quei canali dalla raffinata, a tratti intangibile, natura bisogna saperci stare e, meglio ancora, saperli usare. Comunicazioni brevi, semplici, essenziali, non troppo articolate ma soprattutto corrette. E tutto ciò vale sia per la più sperduta rosticceria così come per il grande museo nazionale. Verrebbe da dire, anzi, che nel secondo caso debba valere maggiorente perché coloro cui si rivolge una istituzione dello Stato come un museo sono prima di tutto cittadini e poi, in seconda battuta, e lo si segnala con molto rammarico, acquirenti. Si è ribadito, infatti, molto spesso in questi ultimi anni e non solo da queste pagine, che l’accesso ai musei statali dovrebbe essere gratuito così come accade, ancora oggi, nei casi di archivi e biblioteche di Stato. Questa gratuità diventa necessaria pensando agli invisibili, popolo di una città chiamata povertà. E ciò vale vi fosse anche uno solo di loro perché se vero che l’arte e la conoscenza hanno un valore salvifico, a maggior ragione bisogna agire in accordo a quanto scritto nel Talmud babilonese ovvero che “Chi salva una vita salva il mondo intero”.
Veniamo ai fatti. Il 15 dicembre 2021 è apparsa sulla pagina istituzionale Instagram delle Barberini Corsini (gallerie nazionali delle più prestigiose, per sedi e opere d’arte, a livello nazionale e internazionale) un curioso post. In esso si cita, e parzialmente si trascrive e mostra un documento del 1663 con cui quelle gallerie vogliono porre l’attenzione sulla declinazione al femminile del termine architetto per il caso dell’artista seicentesca Plautilla Bricci.
Del documento è riportato tra le altre cose, infatti, ciò che più comunemente è definito il “titolo” dell’affare. Le Barberini Corsini lo riportano come segue:
Conventiones super fabrica inter illustrissiums dominus abate Elpidius de Benedictis et magistrus Marcus Antonius Beragiolam
La trascrizione appare incredibile per l’infilata d’inesattezze a cominciare da quel “magistrus” (e si tralasciano altre sviste). Un liceale al primo anno, consultando uno dei più noti dizionari di latino, troverà il termine “magister”. A chi ha trascritto e soprattutto autorizzato la pubblicazione di quella trascrizione (e più in generale di quel post) sono ignoti forse non solo i rudimenti della lingua di Cicerone ma anche le più comuni (e a dire il vero anche molto semplici) abbreviature generalmente usate da notai e non solo.
Nel documento, per completezza, il “titolo” è invece:
Conventiones super fabrica inter Illustrissimum D. Abbatem Elpidium de Benedictis et / magistrum Marcum Antonium Beragiolam
A questo punto, e in conclusione, è legittimo chiedersi se un istituto, e proprio del Ministero della Cultura, non debba prestare più attenzione quando voglia usare documenti storici. Alla rosticceria che si social-pubblicizza si potrebbero anche concedere sviste come quelle qui evidenziate, ad una Galleria Nazionale proprio no, figuriamoci a due messe assieme. In questo curioso modo di comunicare il patrimonio culturale che qualcuno, con forzata bonarietà, potrebbe definire più che discutibile o almeno di singolare e davvero poco opportuna leggerezza, le Gallerie Barberini Corsini non sono a dire il vero da sole. Come dimenticare, infatti, il pesce d’aprile organizzato dall’Archivio di Stato di Venezia lo scorso anno oppure il caso del funzionario (oggi “promosso” a soprintendente ex comma 6) che, in un volume a sua cura dedicato ai restauri finanziati dal Ministero della Cultura di uno dei più importanti castelli di Puglia, lascia passare una clamorosa svista per la quale un metallico gancio per appendere un lampadario è letto come croce araldica di un ordine cavalleresco? Il ministro Franceschini dovrebbe essere forse più oculato in alcune sue scelte. Egli è, a dire il vero, nelle condizioni di porre rimedio ad alcune sue sviste. Se non lo facesse è perché questa curiosa situazione evidentemente gli fa comodo.
Ultima doverosa nota. Prima di procedere alla stesura di queste righe abbiamo chiesto chiarimenti su quel testo in “latinorum” alle Barberini Corsini ed esattamente usando la stessa via social ovvero attraverso quel loro post. Dopo circa un mese nessuna risposta. E anche questo è particolarmente grave rispetto alla cultura dell’immediatezza dettata oramai proprio dal nuovo comunicare. Dieci giorni, oggi, appaiono davvero troppi per una non risposta, tanto più se si ricordasse che a metà Seicento una lettera e una eventuale risposta impiegava solo quattro giorni per andare da Napoli a Lecce. Cambiano i tempi, le tecnologie ma non sempre siamo umanamente all’altezza delle seconde e la differenza la fanno proprio le persone.
Fonte archivistica:
Archivio di Stato di Roma, Trenta Notai Capitolini, Uff. 29, Vol. 182, 15 ottobre 1663, cc. 380 – 382.
Sitografia:
https://www.instagram.com/p/CXgfyquLQNA/?utm_source=ig_web_copy_link
https://www.barberinicorsini.org/evento/una-rivoluzione-silenziosa-plautilla-bricci-pittrice-e-architettrice/
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