Giovanni Sannino
Situata ai margini di quella zona di città storica sfigurata dal Risanamento, nel cuore di Napoli, la chiesa dei Santi Severino e Sossio spicca con la sua poderosa mole nel caos urbanistico e architettonico delle strade a ridosso del corso Umberto I. Un tempo parte di uno dei maggiori complessi benedettini del Mezzogiorno tra Medioevo ed Età moderna – un monastero che disponeva di una ricca biblioteca, due chiese e ben quattro chiostri –, l’edificio divenne proprietà del nascente Stato italiano dopo le soppressioni seguite al 17 febbraio 1861. Oggi, quindi, appartiene al Fec, che l’ha affidato, con una singolare convivenza, alla Comunità di Sant’Egidio e al Touring Club Italiano: all’una per officiarvi le messe domenicali, all’altro, dal novembre 2014, nell’ambito dell’iniziativa “Aperti per voi”. Così sono dei volontari a occuparsi di un monumento che custodisce alcune delle opere più importanti per la storia delle arti a Napoli tra l’inizio del Cinquecento e la metà del Settecento.
Tra le tante peculiarità di questa chiesa, vi è il fatto di conservare, nella navata e in alcune cappelle, un rarissimo pavimento a commesso marmoreo della seconda metà del Cinquecento, arricchito da lastre terragne in gran parte risalenti a un periodo che arriva fino al primo Seicento (si pensi che, tra i molti nomi incisi su queste lapidi, vi si legge anche quello di Belisario Corenzio, pittore greco che fu il maggiore frescante attivo nella Napoli a cavallo tra XVI e XVII secolo). Un elemento unico, e non solo nel contesto locale, che però ha goduto di scarsissima fortuna critica, tant’è vero che gli scultori e i lapicidi che vi lavorarono restano ancora quasi tutti anonimi.
Ebbene, questo vasto tappeto policromo, così prezioso e fragile, richiederebbe cure e attenzioni assai scrupolose, a maggior ragione perché diverse lastre sono assai consunte e molte crustae marmoree sono frammentate o rischiano di saltare dal pavimento. In particolare, sono le sepolture a ridosso della crociera a versare in condizioni critiche. Alcune di queste, addirittura, presentano pezzi di marmo sgretolati o in via di sgretolamento.
Ma è consapevole di tutto questo chi ha in custodia la chiesa? I volontari del Touring Club sicuramente, e però, a vedere le pesantissime e ingombranti stufe a fungo ammassate nella cappella di Costanzo (la quarta a destra della navata), che ha un pavimento databile intorno al 1565, non si può non rimanere sgomenti. Ognuna di queste stufe, infatti, pesa tra i 15 e i 20 chili (peso che può anche raddoppiare con l’inserimento delle bombole del gas).
Ma c’è di più: pare che queste stufe siano della Comunità di Sant’Egidio, cui sarebbero servite per riscaldare l’interno dell’edificio durante i pranzi di Natale (anche se ci sono foto che le mostrano sistemate nella navata pure in altre occasioni). Insomma, questi termofunghi sono stati trascinati per tutta la chiesa quando questa ha dovuto ospitare un paio di centinaia di persone, oltre che un gran numero di tavoli e sedie, e si può immaginare cosa potrebbe aver comportato questo per le tarsie e le lastre terragne.
Provo un certo disagio nello scrivere queste parole: non è mia intenzione, infatti, criticare il lodevole operato della Comunità di Sant’Egidio. Ma il problema è che la chiesa dei Santi Severino e Sossio non è il luogo adatto a ospitare eventi del genere, anche volendo prendere delle precauzioni per ridurre la pressione sul pavimento (e non sempre, comunque, c’è stata particolare scrupolosità: ad esempio, pare che nel Natale 2018 si sia fatto ricorso a dei semplici teli di plastica). C’è da dire, inoltre, che anche la sezione napoletana del Touring Club ha fatto un uso abbastanza disinvolto dell’edificio (ci sono stati addirittura dei concerti).
C’è poi un’altra cappella che si trova in una condizione non propriamente felice. È la cappella alla destra della tribuna, un tempo di patronato della famiglia Gesualdo, ridotta a polverosissimo sgabuzzino di materiale di vario genere nonostante il fatto che custodisca uno splendido altare in marmo degli anni Sessanta del Cinquecento, opera dello scultore Giandomenico D’Auria e del figlio Girolamo. Vi si possono trovare le cose più svariate: una statua del Redentore e un busto lignei forse settecenteschi, pannelli plastificati, addobbi di Natale, tubi innocenti arrugginiti e un grosso schermo per proiettori, posto, con disarmante superficialità, davanti alla tomba di Carlo Troya, storico, patriota e importante studioso di Dante.
A questo punto, però, c’è da chiedersi perché la soprintendenza ha lasciato che si utilizzasse la chiesa in questo modo. Certo: una decisione come quella adottata per la chiesa della Certosa di San Martino, con la chiusura della navata alle visite per fermare l’aggravarsi dei danni al pavimento a intarsi marmorei seicentesco, non può essere presa a modello, soprattutto perché a San Martino, prima di procedere ai restauri, si sta aspettando che si completi la raccolta fondi con l’Art bonus; raccolta, però, che langue penosamente da circa un anno (come era ampiamente prevedibile, d’altronde). Ma perché almeno non è stato impedito che le cappelle fossero utilizzate come magazzini e che si svolgessero eventi rischiosi per la salvaguardia del pavimento?
Dunque, con i Santi Severino e Sossio siamo davanti a un caso di totale abdicazione ai compiti che l’articolo 9 affida alla Repubblica. Concesso il monumento ai volontari, quasi tutto sembra lecito e l’amministrazione dello Stato rinuncia a esercitarvi le proprie funzioni; è normale, quindi, lasciare che le condizioni della chiesa peggiorino (ci sono infatti anche altri problemi, di cui, però, non è il caso occuparsi ora). Una vicenda, insomma, che mostra qual è il prezzo che stiamo pagando per il progressivo disimpegno dall’esercizio della tutela.
Fotografie di Giovanni Sannino.
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Claudio Meloni – FP CGIL