di Tomaso Montanari
«La leva in massa degli eserciti è stata fatta da secoli, la leva dell’intelligenza mai. Ed importa all’Italia che questi milioni d’Italiani entrino nel circolo della vita nazionale. Chi darà i mezzi per questa leva dell’intelligenza? Si troveranno … nel concorde tributo di tutti i cittadini che sentiranno nella scuola il presidio della Nazione». Le parole pronunciate da Concetto Marchesi in Assemblea Costituente indicavano la via maestra: la scuola, e non più l’esercito, come presidio della Nazione. Bene, volendo rimanere nella metafora, la Nazione è rimasta senza presidio.
Come da lunga tradizione, l’Italia si è rivelata «nave senza nocchiero in gran tempesta / non donna di provincie ma bordello». Sette secoli dopo questi versi di Dante, ‘bordello’ è infatti l’immagine giusta per definire la confusione che ha inghiottito insegnanti, famiglie e soprattutto studenti.
Ad ogni intervista della loquace, quanto inconcludente, ministra Azzolina i dirigenti si sono trovati a rispondere alle centinaia di mail degli studenti degli ultimi anni delle superiori, che chiedevano conferma delle prospettive, di volta in volta diverse, fatte intravedere sulle modalità degli esami finali. E non hanno potuto che rispondere che si trattava solo di esternazioni del vertice politico, rimanendo tutta la scuola italiana in attesa di atti ufficiali. Infine, a quasi un mese dall’inizio fissato per gli esami di Stato (17 giugno, data che peraltro confligge con la durata degli scrutini fatti online), la ministra si è degnata di comunicare che la maturità si farà in presenza.
Prontissima, e assai bene argomentata, la levata di scudi di dirigenti e insegnanti: come si pensa di garantire per il 17 giugno quella sicurezza che oggi non è nemmeno pensabile, tanto che come è noto le lezioni non riprenderanno? Insomma, insicuri per la didattica e sicuri per gli esami? Come affrontare i viaggi dei professori (soprattutto da sud a nord), la ricerca dei presidenti, come garantire (parola chiave) le persone fragili e a rischio presenti sia tra i commissari che tra i candidati?
Sia chiaro, il problema è enorme, e nessuno invidia la responsabilità piovuta in capo ad Azzolina: ciò che è imperdonabile è essere arrivati fino a questa data senza dare agli studenti e ai professori nessuna certezza. Difficile non vedere come questa disfatta sia figlia dello scarsissimo interesse che la politica nutre da sempre per la scuola: in questo, il governo Conte non è certo peggiore dei predecessori. Ma neanche migliore: regna sempre la stessa, sovrana, indifferenza per il ‘presidio della Nazione’.
Come è noto, dal 18 maggio ripartiranno le messe. Mentre «centri sportivi e palestre riapriranno il 25 maggio», ha assicurato il ministro Spadafora: ma le scuole invece no, anzi sì, ma solo per l’esame finale. Ora, questa curiosa discrasia (si possono affollare le palestre, o le chiese, ma non le aule?) dirà pur qualcosa sulla gerarchia dei poteri, e dunque sulle priorità, di un Paese che appare assai poco interessato al suo futuro.
Ma, si obbietterà, il Presidente del Consiglio ha annunciato (dopo due mesi di omiletiche conferenze stampa in cui la scuola risultava desaparecida) un miliardo e 450 milioni in due anni: ottima notizia. Ma se si rapporta questa cifra ai 55 miliardi impegnati, siamo ben sotto quell’8% che è circa quanto spetta alla scuola nel bilancio dello Stato. Una quota peraltro già insufficiente. La morale è che anche in questa emergenza la scuola riceve molto meno di quanto dovrebbe avere.
Ma la cosa più grave è che quei soldi non serviranno comunque a riportare in classe la comunità educante, a settembre: perché non c’è il tempo per spenderli, ci si è mossi troppo tardi. Tanto è vero che, mentre Conte parlava, gli uffici scolastici comunicavano ulteriori pesanti tagli alle classi per settembre (in Toscana, per esempio, ci saranno 118 posti di insegnante in meno): che significa dover sopprimere classi, affollando ancora più gli studenti in quelle che anche la ministra chiama ‘classi-pollaio’.
Una scelta che significa una cosa sola: al Miur si dà per scontato che la didattica sarà online anche l’anno prossimo. Peccato mortale, perché nonostante i miracoli fatti da insegnanti, ragazzi e famiglie, in questi due mesi è apparso chiaro ciò che già era ovvio: quella a distanza non è scuola, ma solo un insulso surrogato che è solo (e neanche sempre) meglio di niente.
Cosa si sarebbe dovuto fare, invece? Fin dalla chiusura di marzo ci si sarebbe dovuti gettare a capofitto a cambiare tutto: a partire dall’abrogazione della scellerata legge che fa scattare chiusure e accorpamenti di scuole quando gli iscritti calano, per la stessa mentalità aziendalistica che ha cancellato la medicina di prossimità e i piccoli ospedali.
Ebbene, bisognava puntare sull’assumere tutti gli insegnanti necessari, e sul riattivare subito una rete di ‘scuole di prossimità’ (secondo la bella formula che dà il nome alla proposta lanciata qualche giorno fa dall’ex ministro Lorenzo Fioramonti), puntando su tutti gli spazi pubblici disponibili: circoli, associazioni, edifici statali in disuso. E, con ben altro incremento di senso, musei e altri luoghi della cultura.
Questa doveva essere la sfida, portare ovunque la scuola, per farla ripartire in presenza e in sicurezza a settembre. E invece siamo alla schizofrenia di una difficilissima e pericolosa maturità in presenza ora, e di una probabile scuola virtuale a settembre. Più che al presidio della Nazione, siamo all’8 settembre dell’istruzione.
Articolo pubblicato in “Il Fatto Quotidiano”, 18 maggio 2020