di Rita Paris
Le pagine di questa rivista hanno già accolto alcuni scritti sulla rivoluzione che ha riguardato i beni culturali e paesaggistici del nostro Paese attraverso una radicale trasformazione dell’assetto delle Soprintendenze e dei luoghi della cultura, Musei, Monumenti, Siti, Parchi Archeologici (per praticità di seguito definiti “Musei”) del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo.
Si rischia quindi di essere un po’ ripetitivi ma, come affermava Antonio Cederna, “Scrivo da sempre lo stesso articolo, finché le cose non cambieranno continuerò imperterrito a scrivere le stesse cose” e senza la minima presunzione di poter emulare Cederna, è necessario ricordare quanto sia accaduto e come, implacabilmente, si proceda. Di riforma in riforma, in “questa eterna Fiera dell’est” che è diventato il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, come lo ha definito Tomaso Montanari lo scorso dicembre, non vi è tregua per le povere istituzioni costrette a rincorrere i cambiamenti con nuovi protocolli, indirizzi, carte intestate, email, poste certificate, accrediti della Pubblica Amministrazione, altri bilanci, con gli archivi inconsultabili, nella incessante variazione di competenze (ma chi se ne accorge e forse meglio così!), fino alle miserie per l’accaparramento delle stanze, delle sedi, di quel che è necessario per poter lavorare, facendo fronte come si può alla dispersione delle pratiche, agli indebolimenti della tutela, ai ritardi di pagamenti a professionisti e imprese e tanto altro. Con le continue riforme, è evidente che gli aspetti burocratici hanno il sopravvento, a scapito dei compiti speciali ai quali i professionisti devono dedicare il proprio impegno per la tutela e la cura del patrimonio.
Occorre provare a evidenziare con ordine alcune delle più gravi criticità che hanno già compromesso il sistema e rischiano di produrre effetti rovinosi per diversi aspetti, pienamente consapevoli che le osservazioni che si vanno ripetendo ricevono scarsa attenzione, anche presso l’opinione pubblica, rispetto alla forza comunicativa del Ministero.
Il dovere di una amministrazione pubblica di procedere a forme di adeguamento e innovazione non può prescindere dalla considerazione delle specificità delle competenze e nel caso di questo Ministero la nuova organizzazione doveva partire dalla conoscenza delle esigenze dei beni culturali e paesaggistici: le carenze di personale, la formazione, una più equa distribuzione delle risorse, lo snellimento delle procedure e della struttura burocratica centrale, l’adattamento del codice che regola i lavori pubblici alla peculiarità delle opere di scavo, restauro, manutenzione del patrimonio stesso a cui gli istituti si dedicano e la pianificazione paesaggistica alla quale il Ministero sembra aver rinunciato, diversamente da quanto previsto nel Codice dei beni culturali e del paesaggio.
La logica riformatrice, al contrario, ha operato con un approccio prettamente politico, applicando senza esitazione i modelli della new economy al patrimonio culturale, non più strumento per la crescita culturale e scientifica della nazione, elaborando un modello funzionale alla tesi determinata, confezionato a tavolino e applicato dall’alto, senza tenere conto delle istanze culturali rappresentate dagli addetti ai lavori e delle realtà estremamente diverse per le quali non poteva essere adatta la stessa ricetta. Senza peraltro svolgere alcuna verifica per conoscere lo stato della situazione a livello nazionale.
Sull’onda delle riforme che si sono attuate in due fasi, nel 2014 e nel 2016, con il Ministro Franceschini, passando poi per una riorganizzazione del Ministro Bonisoli (2019), in parte abortita e per la terza riforma di nuovo (2019-2020) del Ministro Franceschini che non si è limitata a regolare alcune incongruenze, ma ha introdotto nuovi Istituti autonomi, nuove Soprintendenza e nuove Direzioni generali, nel panico che ha investito ogni volta gli uffici, gli unici davvero consapevoli di cosa si tratti, vi è il rischio che si perda di vista il principio generale e preliminare alla base della riforma stessa, ossia la separazione della tutela dalla valorizzazione, compiuta operando una netta divisione tra Soprintendenze e “Musei”.
Non si tratta infatti solo di una separazione di competenze, ma della frantumazione forzata di sistemi culturalmente coerenti e indivisibili, nella quasi totalità delle situazioni, che si è tradotta nella cancellazione dell’inscindibile rapporto tra i “Musei” e il territorio, creando per gli uni singoli Istituti autonomi o Direzioni (già Poli) regionali, lasciando l’altro alle Soprintendenze. Si è dunque disgregato il patrimonio diffuso del nostro Paese, fortemente connotato dalla ricchezza delle testimonianze storiche e artistiche e dalle trasformazioni che le hanno ulteriormente caratterizzate attraverso i secoli, dai paesaggi intesi come rappresentazione del valore culturale e della memoria, beni da preservare nel loro insieme, per porli a disposizione della collettività e della ricerca scientifica, attraverso la quale si attua la vera valorizzazione. Gli strumenti della tecnologia e della comunicazione sono mezzi dei quali è bene avvalersi, ma non debbono costituire il contenuto e il fine da raggiungere.
Piace richiamare un frammento di dichiarazione del Senatore Giuseppe Chiarante, fondatore con Giulio Carlo Argan dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, che ha rivolto un impegno speciale al progetto di riforma delle politiche culturali, anche come vicepresidente del Consiglio Nazionale del Ministero (1998-2002): “…la specificità dei problemi della tutela del patrimonio culturale in Italia dipende proprio dallo stretto collegamento che vi è nel nostro Paese tra patrimonio culturale e territorio. In Italia la questione fondamentale non è come può essere in altri paesi quella di amministrare bene un certo numero di musei, ma prima di tutto quella di amministrare il meglio possibile quel patrimonio diffuso nel complesso del territorio che ben conosciamo”.
La scarsa conoscenza del lavoro svolto dalle Soprintendenze, a livello nazionale, ha fatto ritenere che si trattasse quasi esclusivamente di attività di tutela: soprintendenze, tutela, vincoli, sono stati considerati termini antiquati e indirizzati alla conservazione dello stato di fatto, dunque da confinare in uffici che non contribuiscono al processo di crescita della conoscenza e di valorizzazione culturale. Al contrario – e risulta banale doverlo precisare – questi uffici, se messi in condizione di lavorare, sono laboratori dello studio analitico del territorio e anche base per il migliore governo che gli strumenti di pianificazione devono garantire, fonte continua di scoperte di episodi di storia materiale e artistica, di promozione e alimento, di arricchimento e rinnovamento dei musei.
E’ illogico separare l’insieme dei processi tutela/valorizzazione attraverso il distacco dei “Musei” dalle Soprintendenze di cui sono parte integrante, salvo casi speciali, per creare invece una rete museale nazionale che corrisponde a un sistema astratto, organizzato con criteri di fruizione, accessibilità e gestione, piuttosto che, prima di tutto, di carattere culturale. Inoltre, le Soprintendenze, da un lato sono state private dei “Musei” che ne costituivano parte integrante e, di fatto, ridotte a uffici per il rilascio di pareri e vigilanza su trasformazioni e scavi preventivi, dall’altro hanno accorpato le competenze di tutte le discipline in cui prima erano divise (beni archeologici, beni storico artistici, beni architettonici e paesaggistici), con l’eliminazione della specializzazione che è stata alla base della formazione di studio e delle esperienze e creando di fatto la figura del dirigente unico.
Un appello agli archeologi (https://www.inasaroma.org/appello-agli-archeologi-2/) che ha raccolto oltre 1200 firme di studiosi di tutto il mondo, lanciato a dicembre 2018 per denunciare gli effetti devastanti della prima e seconda fase della riforma, non ha ricevuto alcuna considerazione, tantomeno ha stimolato un opportuno confronto. Ancora, nel novembre 2019, il Giornale dell’Arte ha pubblicato una lettera rivolta al Ministro Franceschini da parte di due illustri accademici dei Lincei (Adriano La Regina e Fausto Zevi, https://emergenzacultura.org/2019/11/06/lettera-di-la-regina-e-zevi-al-ministro-franceschini/) – anche questa iniziativa non ha avuto riscontro – che illustra con estrema chiarezza il grave danno che deriva dal distacco dei “Musei” dal territorio, con la prospettiva di un impoverimento delle strutture museali che non potranno più accogliere automaticamente nuove scoperte e arricchire le collezioni in una attività scientifica in continua evoluzione, sia per le parti espositive, sia per quelle, non meno importanti, dei depositi, da sempre laboratori di ricerca, anche in collaborazione con le università e le istituzioni culturali italiane e straniere. L’attenzione portata ai “Musei” dal Ministro Franceschini, elemento da considerare ovviamente positivo, poteva essere raggiunta anche attribuendo le direzioni dei “Musei” stessi a personale idoneo selezionato all’interno delle Soprintendenze, al quale conferire autonomia scientifica e risorse, come accaduto per molti casi in passato, tra i quali il Museo Nazionale Romano, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il Museo Archeologico Nazionale di Taranto e tante Gallerie Nazionali d’arte antica, migliorando e formalizzando l’organizzazione e come già previsto dalla “Commissione Franceschini” che ha lavorato negli anni 1964-67.
Ma la riforma è basata sulla enfatizzazione di un rinnovamento ad ogni costo che passa per la selezione – esonerata da effettive procedure concorsuali – di direttori anche stranieri o comunque per lo più non interni all’ Amministrazione e che si alimenta con lo sfoggio ossessivo (e francamente anche ripetitivo) della crescita numerica di visitatori, elemento che non necessariamente corrisponde alla crescita qualitativa dei Musei e alla coscienza di coloro che li visitano.
Non si esprime qui un giudizio sulla politica che ha guidato queste scelte, forse ispirata ai migliori principi e con la quale non è possibile misurarsi, si deve tuttavia osservare che la politica ha determinato le scelte dei principi, ignorando ogni istanza basata su motivazioni scientifiche e culturali, assegnandosi anche ampi margini di discrezionalità in merito alla selezione delle figure poste alla guida dei nuovi Istituti autonomi, verso i quali è rivolta ogni attenzione mediatica. L’operazione, infatti, è stata accompagnata costantemente da una massiccia campagna di comunicazione dai toni entusiastici e non ha lasciato spazio a un confronto con gli addetti ai lavori, definiti come una categoria d’élite, poco propensa al cambiamento e quindi più idonea a occuparsi della tutela nelle Soprintendenze.
Impossibile, inoltre, ignorare l’entità degli effetti pratici di questa riforma che ha determinato uno stato di caos, già ampiamente illustrato, ma che non sembra avere fine a seguito dell’ultimo DPCM (n.165 del 2019) per il quale l’Amministrazione centrale non mostra alcuna preoccupazione. Vengono costituiti altri otto Musei autonomi, scorporandoli dai Poli (ora Direzioni) regionali (Biblioteca e Complesso monumentale dei Girolamini, Napoli, Museo Nazionale d’Abruzzo L’Aquila, Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, Museo Nazionale di Matera, Palazzo Reale di Napoli, Pinacoteca Nazionale Bologna, Vittoriano e Palazzo Venezia, Parco Archeologico di Sibari), sono create quindici nuove Soprintendenze e tre nuove Direzioni Generali centrali.
Come le Soprintendenze, anche gli Istituti autonomi dovranno assolvere ad adempimenti burocratici non semplici, sia nella fase di costituzione, che di funzionamento, spesso con problemi di sede, archivi, laboratori e servizi che prima erano comuni con gli Istituti da cui sono derivati, con la conseguenza che gli uni o gli altri non potranno più utilizzare questi servizi e archivi prima comuni, rimanendo privati delle importanti fonti documentali per lo svolgimento di ogni genere di attività.
Non appare dunque valido, anche dal punto di vista logistico, il modello che, nell’ossessione della creazione di sempre maggiori autonomie, produce una moltiplicazione di incombenze burocratiche per realtà che potrebbero essere gestite in un’unica istituzione, pure autonoma ma culturalmente omogenea e in modo funzionale all’economia delle risorse con servizi centralizzati.
Non si può tacere sulle scelte delle figure di Direttori e Superdirettori (per Istituti di II e I fascia) fatte con una procedura singolare che non risponde a criteri di piena trasparenza, lasciando un margine di discrezionalità al Ministro o al Direttore Generale del momento che decide tra una rosa di tre nomi dopo una selezione di 10 candidati scelti da una commissione nominata dal ministro, tra tutti coloro che hanno presentato la propria candidatura. Perché non procedere a questa selezione con concorsi pubblici in grado di garantire oltre alla qualità, anche maggiore indipendenza dal potere politico, graduatorie pluriennali alle quali attingere senza nuovi oneri, dignità e diritti?
Difficile, a volte, comprendere le scelte fatte, se, come viene dichiarato, la selezione è basata sul curriculum migliore e sulla conoscenza specifica per i contenuti dell’istituto per il quale si concorre. E’ strano inoltre che solo pochi tra i professionisti dell’amministrazione risultino nelle selezioni, professionisti che hanno superato concorsi effettivi per entrare nei ruoli, in possesso di requisiti e titoli di specializzazioni richiesti, con anni di esperienze di direzione di lavori di restauri, di scavi, di musei, monumenti e siti, spesso con l’applicazione di metodologie e soluzioni innovative. Quale carriera professionale si offre a queste figure, destinate a lavorare sotto direzioni spesso bizzarre, in strutture più limitate e quindi con minori opportunità di crescita professionale, un po’ “ingannate” da esordi promettenti che lasciavano giustamente sperare in opportunità di carriera?
Di contro, non è stato bandito alcun concorso per il ruolo di Soprintendente, pur essendovi numerose sedi vacanti, in alcuni casi con incarichi ad interim, mentre sarebbe importante comprendere come si intenda risolvere il problema in presenza di Soprintendenze uniche. Sarà un archeologo, un architetto, uno storico dell’arte, un archivista, un amministrativo a prendere cura della tutela?
Da ultimo, ma senza aver esaurito gli argomenti, si deve osservare, se pur ormai solo a titolo di mera considerazione, che si sono create discriminazioni eccessive tra Istituti ricchi e Istituti che, in grave indigenza, non riescono a provvedere neppure alle necessarie forniture di materiale, tanto meno alle opere conservative con la manutenzione programmata che dovrebbe essere alla base di ogni buona gestione del patrimonio. Gli effetti sono visibili. Mentre si continuano a esibire i numeri dei visitatori!
Articolo pubblicato in “Left”, 6 marzo 2020