L’effetto Covid sulla cultura: i bimbi hanno perso il museo

Tomaso Montanari

Tra le tante intelligenti provocazioni di Federico Zeri, una era francamente sbagliata: quella per cui l’accesso ai musei si sarebbe dovuto interdire ai bambini, pestiferi disturbatori di luoghi tanto sacri e seri da dover essere riservati agli adulti. Aveva invece ragione il suo maestro Roberto Longhi, quando predicava che “ogni italiano dovrebbe imparare la storia dell’arte da bambino, come una lingua viva (se vuole avere coscienza intera della propria nazione)”. È ancora vero, anzi è ancora più urgente oggi: perché se la coscienza della propria nazione la si raggiunge attraverso l’arte, sarà bandito fin dall’inizio quel nazionalismo del sangue e delle frontiere che è la radice di ogni guerra e di ogni chiusura identitaria e razzista.

E così è vitale che i bambini imparino per tempo ad esser di casa nel patrimonio culturale: che in Italia vuol dire nelle piazze, nelle chiese, nel paesaggio e, sì, anche nei musei. Che quando sono davvero degni di questo nome, non sono solo depositi di oggetti, ma centri di produzione e redistribuzione della conoscenza capaci di parlare a tutte e tutti: inclusi i più piccoli.

Qual è dunque il bilancio, su questo fronte cruciale? A dircelo è un rapporto pubblicato qualche giorno fa da Openpolis (in collaborazione con l’impresa sociale “Con i Bambini” nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile) con il titolo L’accesso alla cultura e ai musei per i minori, dopo due anni di pandemia. I numeri elaborati e analizzati dimostrano che “i bambini e i ragazzi sono l’unica fascia d’età dove il calo successivo al Covid è stato superiore ai 10 punti percentuali”. Si è, cioè, bruscamente interrotto un trend di crescita che nei precedenti dieci anni aveva visto progressivamente aumentare la presenza infantile nei musei.

Come sempre, tuttavia, la media nazionale è ingannevole visto che la “questione meridionale” riguarda anche questo aspetto vitale del percorso educativo: “Mentre in alcune regioni – come Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia e provincia autonoma di Trento – oltre il 60% dei bambini aveva visitato almeno un museo o una mostra nel 2019, in altre – quasi tutte collocate nel mezzogiorno – la quota spesso non raggiungeva il 50%. In particolare in regioni come Molise, Sicilia, Puglia, Calabria e Basilicata dove, già prima dell’emergenza, poco più di un terzo dei minori tra 6 e 17 anni aveva visitato un museo”. La sperequazione ha a che fare con dati strutturali: “A fronte di una media di 5 strutture ogni 10 mila minori, infatti, la quota risulta fortemente variabile, a partire dalle città maggiori. Sale a 12,4 a Firenze e 8,4 a Bologna. Mentre si attesta ampiamente sotto la media in 3 grandi città del sud: Catania (1,68), Bari (2,06) e Napoli (2,21)”.

Come sempre, le differenze non sono solo tra Nord e Sud, ma tra grandi centri e aree marginali: “Le aree interne del paese, peraltro, sono quelle in cui la riapertura in seguito all’emergenza Covid mostra le maggiori criticità. Dai dati raccolti nel censimento di Istat (2021), risulta infatti che solo il 9,1% dei musei nei comuni ultraperiferici abbia riaperto al pubblico nel 2021, contro il 21,7% dei comuni In parallelo, oltre il 27% non ha riaperto e non sa se riaprirà. Dati che ci ricordano le criticità tipiche dei centri più remoti del paese, dove servizi e strutture in molti casi sono caratterizzati da minori dotazioni, sia in termini di offerta che di personale. E che perciò ci segnalano il rischio che siano proprio i territori periferici a soffrire una maggiore carenza dell’offerta culturale, nell’uscita dall’emergenza”. La morale è che “in seguito all’emergenza, la quota di visitatori dei musei si è drasticamente ridotta, in particolare tra i minori. Una questione per tutto il paese, a maggior ragione per i territori dove già prima della pandemia meno della metà dei bambini aveva accesso a queste strutture”.

Lungi dall’esserne usciti migliori, anche in questo ambito la pandemia rischia di provocare un brusco arresto in un cammino già difficile e accidentato. Anche ammesso che i dati dell’affluenza dei minori agli Uffizi vadano interpretati come un “effetto Ferragni” (come pretende la direzione del museo), è evidente che il punto non è incrementare ancora il consumo del bene-feticcio. Una vera sostenibilità culturale non può fondarsi sul marketing paternalista del cucchiaio di zucchero che manda giù la medicina (l’influencer che “‘vende” Botticelli), ma deve invece abbattere le barriere culturali, sociali ed economiche che separano lo spazio del museo dallo spazio pubblico della collettività. L’obiettivo è la costruzione di una stabile intimità tra i bambini e i musei, quasi sempre piccoli e medi, del loro territorio. Con la pandemia, ci dice Openpolis, quel traguardo è ancora più lontano: raggiungerlo dovrebbe essere la priorità delle priorità per un Ministero della Cultura degno di questo ambizioso nome.


Articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il 30 maggio 2022. Fotografia dalla pagina Facebook dei Musei Capitolini.

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