Leonardo Bison
Se ha funzionato per una settimana la mega-macchina dell’Eurovision di Torino, tra eventi e dirette, è stato anche grazie a 600 persone che gratuitamente si sono occupate di fornire le informazioni turistiche, di gestione dei flussi, di accoglienza e i servizi al pubblico, dei presidi in sala stampa e nell’area delegazioni, di accrediti e i trasporti, di costituire una segreteria volontari e fare gli “attaché”, ovvero i membri dello staff assegnato a una delegazione nazionale. Ma l’impiego di centinaia di volontari in un evento che, stima il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, avrà una ricaduta di circa sette volte l’investimento, quindi intorno ai 100 milioni di euro, ha raccolto critiche dalle associazioni dello spettacolo, della cultura, e anche della vigilanza privata, fin da febbraio, quando all’annuncio pubblicato dal Comune di Torino per la ricerca di 600 volontari hanno risposto in 12 mila.
Polemiche che si sono ancor più inasprite nelle ultime due settimane, dopo la pubblicazione sui social di una mail arrivata ad alcuni volontari del festival, che consigliava a chi serviva al catering dei vip di allontanarsi per consumare il pranzo a sacco. “Sarà presente un servizio di catering a solo uso degli invitati”, riportava la mail con una specifica: “Vi chiediamo quindi di organizzarvi sul momento per poter fare una pausa ed uscire dalla lounge se vi siete portati da mangiare e/o bere”. Dall’organizzazione sappiamo che in realtà ai volontari è stato concesso un buono pasto (da spendere negli stand del festival) per turni superiori a sei ore, ma ciò non ha evitato un’esplosione di ironie e critiche, nonché prese di posizioni politiche.
Stiamo parlando, comunque, di un’organizzazione niente affatto nuova: ogni Eurovision poggia letteralmente su centinaia di volontari. E già negli anni passati non sono mancate le voci critiche. Ma l’utilizzo del lavoro volontario e non retribuito non è neppure una specifica di Eurovision: tutti (o quasi) i grandi eventi da decenni si avvalgono dei volontari. Nella riforma del terzo settore del 2017, che abroga una legge del 1991, non si limita più il volontariato a un ambito specifico. Così sono centinaia quelli impiegati negli eventi sportivi, dalla finale di Champions League ai Mondiali. Un modalità che che sarà utilizzata anche durante la finale di Champions League Femminile, che si terrà a Torino il 21 maggio. I volontari sono anche alla base di festival e fiere culturali che da decenni costruiscono il loro business anche sul fatto di poter contare su schiere di addetti non retribuiti. Solo per restare a Torino, e solo per il 2022, la richiesta di volontari è amplissima: ne servono per la Wine Week, per la fiera d’arte Paratissima e per il Salone del Libro.
Un modus operandi che si estende ben oltre. Dal 1993 le Giornate Fai di Primavera impiegano ogni anno migliaia di volontari (e, dal 2016, di studenti in alternanza scuola-lavoro), al fine di raccogliere fondi per un ente privato. Sono stati migliaia i volontari impiegati a Expo Milano 2015 o anche a Matera, Capitale della Cultura 2019 (evento gestito da una Fondazione). Non si contano gli appelli e i bandi da parte delle istituzioni, i ringraziamenti ai volontari che garantiscono servizi pubblici al posto del personale della Pubblica amministrazione. Tanto che, secondo i dati Istat, nelle associazioni e enti no-profit che si occupano di sport, servizi ricreativi e cultura, nel 2018 era impegnata una persona pagata ogni 67 volontari: il 57% di tutto il volontariato in Italia.
Il tema, che resta ben lontano dai Palazzi della politica, è il “lavoro gratuito”: l’utilizzo di forza lavoro volontaria che, per i più svariati motivi, si rende disponibile a offrire tempo e competenze a organizzazioni che non hanno funzione civica o sociale, ma finalità commerciali. Caratteristiche che riguardano in particolare i grandi eventi, e che già diversi ricercatori e attivisti in anni recenti hanno messo a fuoco. Usando le parole di F. Stiernsted e I. Golovko che analizzavano i casi dell’Eurovision a Stoccolma 2016 e Kiev 2017, la questione è “problematizzare il concetto teorico di lavoro gratuito e analizzare gli scambi simbolici e economici coinvolti nell’impiego di forza lavoro gratuita”. Il fatto cioè che questa prassi crei un mondo a cui può accedere solo chi ha un determinato reddito: se quegli spazi di volontariato diventano fondamentali, o molto utili, per trovare lavoro o costruirsi un curriculum, determinati impieghi divengono appannaggio esclusivo di alcuni ceti, o comunque di chi è disposto o nella possibilità di concedere gratuitamente tempo e competenze. Non è un caso che i padri costituenti avessero specificato che gli stipendi siano commisurati alla qualità e quantità del lavoro prestato (articolo 36). Ma ora sembra più importante assicurarsi che i volontari non prendano neppure una tartina dal buffet.
Articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il 16 maggio 2022. Fotografia di Mi Riconosci?
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