Resistere alla «turistificazione»

Antonio Del Castello

La messa in vendita del palazzo del Monte di Pietà, in via San Biagio dei Librai a Napoli, è un capitolo del gigantesco mutamento funzionale che investe da tempo le città storiche italiane, piccole o grandi, e più di recente quelle del Mezzogiorno. Questa vendita rientra in un più generale processo di alienazione del patrimonio immobiliare pubblico e di cambio di destinazione d’uso di quello privato; un processo che avviene in funzione rispettivamente del risanamento dei bilanci degli enti locali, stretti dalle regole finanziarie dell’ultimo decennio, e di una maggiore valorizzazione della rendita. 

Da alcuni anni, diversi attivisti, sociologi e urbanisti usano chiamare questo processo «turistificazione». A differenza di quanto hanno fatto il piccone e le ruspe tra Otto e Novecento, la turistificazione lascia intatti gli edifici (anzi si fa spesso vanto di proteggerli e recuperarli) ma stravolge il «metabolismo» dei quartieri storici. Lo fa gonfiando il mercato immobiliare con gli affitti brevi (liberalizzati in Italia dalla legge 96 del 2017) e creando, in questo modo, le condizioni per la sostituzione progressiva degli abitanti stabili con i turisti, cioè visitatori-consumatori occasionali o comunque temporanei. Una sostituzione che comporta notevoli alterazioni del tessuto commerciale e ricadute significative sull’utilizzo dello spazio pubblico, cioè sulla possibilità di fruirne liberamente e gratuitamente.

Questo processo, momentaneamente sospeso a causa della pandemia globale (che ha arrestato, o almeno drasticamente rallentato, l’ipermobilità globale), scalpita per riprendere il suo corso. In attesa del passaporto vaccinale europeo, il governo Draghi ha istituito una «certificazione verde» nazionale valida già da metà maggio, per rilanciare il turismo locale e internazionale nel nostro paese. Allo stesso scopo, alcuni governi regionali, tra cui quello della Campania, hanno apportato in autonomia notevoli revisioni alla strategia vaccinale. C’è ragione di temere che, in nome della ripresa del settore turistico, che vale il 13% del Pil italiano, e del rilancio degli investimenti immobiliari, si sarà ancora meno disposti a regolamentare il fenomeno. Eppure è proprio la mancata regolamentazione dell’industria del turismo che ha prodotto le conseguenze più gravi sul tessuto abitativo dei quartieri storici, o ha aggravato situazioni già complicate in precedenza, come, nel caso di Napoli, si vedrà con qualche dettaglio più avanti. 

Intorno ai beni immobili in svendita, come il palazzo del Monte di Pietà, le comunità di abitanti trovano oggi una nuova chiave per la comprensione della posta in palio delle lotte per il diritto all’abitare. Rivendicando forme di partecipazione radicale nelle decisioni sull’uso del patrimonio immobiliare storico, quelle comunità mettono in luce il ruolo democratico che possono svolgere le «pietre» degli edifici, frutto del lavoro collettivo che si è stratificato per secoli nella forma materiale delle loro città. 

Il palazzo del Monte di Pietà è un edificio di notevole valore storico e artistico che risale alla fine del Cinquecento. Era questa un’epoca in cui l’istruzione, l’assistenza, la cura dei malati non ricadevano ancora nelle sfere di intervento dello Stato: si trattava di ambiti affidati quasi esclusivamente alla Chiesa, alle comunità locali, a privati, a confraternite o altre associazioni assistenziali. Sarebbero dovuti passare altri secoli prima che una costituzione politica europea rifiutasse il principio della gerarchia naturale tra i ceti sociali e alcuni Stati potessero in seguito assumere, formalmente, il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano «di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini».

Nel corso di quel secolo, dopo che il Regno di Napoli fu annesso ai domini della corona spagnola, la popolazione della capitale era più che raddoppiata: numerosi contadini e braccianti, in fuga dagli abusi dei baroni e dai tributi che colpivano duramente le province, erano emigrati nella città. La capitale, con la sua ricca aristocrazia, offriva mille occasioni di lavoro, più o meno povero, e l’esenzione dalle imposte dirette. Sovrappopolazione, inflazione: la condizione dei poveri e la necessità di venire loro in aiuto, pur senza mettere in questione le cause delle diseguaglianze, erano al centro della predicazione di vari religiosi. Il governo, dal canto suo, si limitava ad assicurare il rifornimento di grano alla capitale a prezzo politico. In questo quadro, le odiose discriminazioni antiebraiche degli anni Trenta del Cinquecento, culminate nel decreto di espulsione del 1541, avevano anche privato i ceti popolari dei principali finanziatori di microcredito su pegno. 

Furono quindi dei privati cittadini napoletani a fondare, nel 1539, l’opera pia che in seguito assunse il nome di «Monte della Pietà». Intorno al 1692, il prestito su pegno era gratuito fino a 10 ducati, una somma che avrebbe consentito l’acquisto di quasi 4 quintali di grano, oppure (almeno dopo il forte ribasso delle pigioni seguito alla peste del 1656) il pagamento dell’affitto per sei mesi di due camere in piazza San Lorenzo o di una bottega alla Vicaria, o addirittura per cinque anni quello di un basso nel borgo Loreto. Sui prestiti di somme maggiori, destinate agli strati della piccola borghesia e dell’artigianato, veniva invece praticato un interesse considerevole, con un tasso che oggi non esiteremmo a definire usuraio, intorno al 6-7%. 

Il Monte di Pietà si guadagnò ben presto una fama molto positiva. A partire dalla seconda metà del Cinquecento, numerose famiglie borghesi e aristocratiche cominciarono ad affidargli il proprio denaro, creando così le condizioni per l’inizio, nel 1570, dell’attività di banco. Il «Monte e Banco della Pietà» è il nucleo più antico di ciò che nel 1808, in seguito alla fusione con gli altri banchi pubblici della città, sarebbe diventato il Banco delle Due Sicilie. Rinominato Banco di Napoli dopo l’annessione delle province meridionali al Regno d’Italia, rimase istituto di emissione fino al 1926, e istituto di credito di diritto pubblico fino al 1991, quando fu trasformato in società per azioni. Incorporato, nel 2002, nel gruppo Sanpaolo Imi, il Banco di Napoli è infine scomparso, per la fusione con Banca Intesa, nel 2018, dopo l’unione già avvenuta nel 2006 tra quest’ultima e il gruppo Sanpaolo. Nel 2017, il gruppo Intesa Sanpaolo, avendo ricevuto in dote l’intero patrimonio dell’ex Banco di Napoli, decide di mettere in vendita la sede storica del Monte di Pietà.

Da quello che risulta, la prospettiva dell’imprenditore che si è proposto di recente per l’acquisto è di farne un albergo di lusso con annesso spazio per eventi. La trattativa è segreta, il che fa temere che il palazzo sarà ceduto per una cifra inferiore a quella corrispondente al suo valore storico, artistico e monumentale. Ma i comitati di abitanti attivi su quel territorio, tra cui la comunità di Santa Fede Liberata, componenti della società civile e della cultura come l’associazione Italia Nostra, e anche alcuni consiglieri della Municipalità 2, nello scorso mese di aprile hanno manifestato il loro rifiuto all’idea che quell’edificio sia venduto. Con quale destinazione d’uso poi? L’ennesima struttura ricettiva, in un quartiere che, fino allo scoppio della pandemia, nel 2020, stava cambiando rapidamente volto, investito dal 2015 da flussi turistici senza precedenti. 

A causa della proliferazione delle attività ricettive extra-alberghiere, favorita da piattaforme online di mediazione tra domanda e offerta come Airbnb o Booking, tra il 2014 e il 2018 nei quartieri storici napoletani circa 5.100 appartamenti erano passati dal mercato degli affitti residenziali a quello delle locazioni brevi per turisti. Le transazioni immobiliari a uso investimento erano cresciute del 41%. 

A Napoli la proprietà immobiliare è molto concentrata: quasi il 50% degli appartamenti sono abitati da inquilini in affitto e il 74% di queste locazioni sono a canone libero, cioè esposte alle oscillazioni del mercato. Solo nel 2018, secondo dati del sito Idealista, gli affitti erano aumentati dell’8,6%. Contemporaneamente, il numero annuale di sfratti esecutivi in città si aggirava intorno a 1.600, a fronte di più di 3.000 richieste. Il blocco degli sfratti, deciso nell’aprile 2020, scadrà il prossimo 1 luglio e riguarda, in tutto il paese, più di 80.000 provvedimenti emessi prima del gennaio 2020. 

Per quello che riguarda il tessuto commerciale, l’aumento degli affitti e la preponderanza della domanda turistica hanno portato negli ultimi anni alla chiusura di numerose attività di vicinato, sostituite per intero da ristoranti, franchising e negozi di prodotti tipici. Nel 2016 la Camera di Commercio di Napoli ha registrato 2.577 nuove attività di ristorazione, e ulteriori 1.861 nel 2017. In alcune strade dell’area dei decumani, un censimento svolto nello stesso anno dal «nodo» napoletano della rete Set (Sud Europa di Fronte alla Turistificazione) ha rilevato una presenza di bar e ristoranti tra il 45 e il 50% del totale degli esercizi commerciali. Una desertificazione sociale che ha mostrato il suo volto più triste (e precario, per molti lavoratori e lavoratrici del settore, spesso a nero) nei mesi di chiusura forzata dall’emergenza sanitaria.

Poiché il palazzo del Monte di Pietà è un bene sottoposto a vincolo (dal 1995), la Regione potrebbe, per legge, esercitare il diritto di prelazione. Ma per le casse pubbliche sarebbe una beffa, perché si tratterebbe di riacquistare un bene che, per la sua origine e il suo significato storico e sociale, non sarebbe mai dovuto restare nella proprietà della banca una volta che questa era stata trasformata, da ente di diritto pubblico, in società per azioni.

Chi ha a cuore la sorte abitativa dei quartieri storici di Napoli chiede perciò, oggi, che quel palazzo sia restituito alla fruizione pubblica, come per secoli è stato, e che la comunità degli abitanti possa decidere del suo utilizzo futuro. Sarebbe importante che questa sua prossima destinazione fosse coerente con la storia del Monte di Pietà, che è storia di coesione sociale e di funzione sociale del credito: e dunque, tra le varie proposte culturali e museali (avanzate per esempio da Italia Nostra), certamente non incompatibili con la sua storia, perché non anche la sede di una nuova istituzione mutualistica, a partecipazione popolare, per il sostegno al diritto all’abitare nella città storica per abitanti e attività commerciali di vicinato? Potrebbe costituire la leva di una denuncia dell’abbandono dei meno abbienti da parte dello Stato e della Regione, anche perché nella nostra epoca, a differenza che nel Cinquecento, il compito di rimuovere le diseguaglianze i pubblici poteri se lo sono ormai assunti eccome. E non può essere un impegno soltanto formale.


Articolo pubblicato su “Jacobin Italia” il 7 maggio 2021. Fotografia di Baku da Wikimedia Commons.

 

 

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