Una legge per riconoscere la figura dell’artista

Francesco Angelucci – Fabrizia Carabelli

Bisognerebbe tornare indietro anni luce per individuare il contesto in cui, nel nostro paese, si è radicata la convinzione che l’artista sia l’anello debole dell’economia, che la produzione di cultura equivalga a una non produzione di fatturato. Parlare della crisi epocale che attraversa oggi il mondo dell’arte vuol dire ripercorrere la vita di un settore storicamente penalizzato che paga le conseguenze di anni, secoli, di trascuratezza da parte dei governi ma anche di cattive convinzioni e di ineducazione sociale. La pandemia ha portato a galla problemi e riflessioni legate allo statuto dell’artista, e all’intera categoria del settore arte, che sono più che maturi per essere affrontati. Tanto più che l’artista in questo discorso non è solo, intorno al settore gravitano infatti quelle categorie di lavoratori che ancora oggi faticano a ottenere una giusta retribuzione e nuove professioni che mancano di inquadramento. Operatori del settore che per lo stato neanche esistono, gravitano in una bolla di anonimato professionale e affrontano ogni giorno il precariato in assenza di contratti o vincoli che li tutelino. In questo panorama fatto di rider della cultura e artisti senza identità ha trovato terreno fertile AWI: Art Workers Italia. Associazione nata durante la prima ondata della pandemia, si propone di restituire dignità a un settore che ne ha davvero bisogno, oggi più che mai.

L’idea di un gruppo di tutela per il mondo dell’arte ha un sapore rivoluzionario, quasi di altri tempi. Non temete possa correre il rischio di essere ritenuto anacronistico rispetto all’attuale contesto sociale?
«L’azione di AWI non è volta a tutelare soltanto gli iscritti all’associazione, ma alla creazione di strumenti tecnici, di consulenza e linguistici che tutelino tutti gli art workers, influenzando, sul lungo periodo, la complessiva cultura del lavoro nel nostro settore. Non siamo un sindacato, né una lobby, né un ordine – e non crediamo di poterci esaurire nella nozione di associazione di categoria. Non pensiamo che il nostro sforzo sia animato da logiche anacronistiche, a meno che l’idea di conferire dignità al lavoro non sia vista come anacronistica. In un mondo del lavoro estremamente frammentato, è viceversa nostra intenzione schierarci a fianco di tante altre battaglie: quella dei lavoratori dello spettacolo, dei riders, del precariato universitario, per fare qualche esempio».

Dove storicamente possiamo rintracciare le origini del problema che affligge l’artista e il settore artistico in generale?
«La domanda è complessa, non crediamo esista una risposta univoca. Potremmo speculare a lungo su preconcetti e costrutti culturali che influenzano la percezione dell’artista, menzionare la sistematica assimilazione dell’ambito della cultura al puro intrattenimento, o magari il fatto che sia stata derubricata ad accessorio del settore turistico, che a sua volta patisce una certa pigrizia di pensiero; valuteremo, in tal senso, il nuovo scorporamento dei rispettivi Ministeri. Forse il nostro settore riflette e amplifica le generali problematiche del mondo del lavoro in Italia. Crediamo si debba far emergere anche una generale mancanza di consapevolezza internalizzata dagli stessi attori del settore – lavoratori inclusi. È estremamente importante comprendere chi siamo, motivo per il quale stiamo lanciando un’indagine di settore. Servono dati reali per evitare di riprodurre i preconcetti e le problematiche strutturali a cui la domanda fa riferimento».

AWI si è formato durante la crisi dovuta alla pandemia di Covid-19. Che risultati pratici ha ottenuto in ormai un anno di attività?
«Partendo dallo sforzo di immaginazione politica di un gruppo informale, oggi AWI è un’associazione che conta 260 iscritti e che collabora con esperti del settore legale, fiscale e amministrativo, enti di ricerca e università, decisori politici e istituzioni dell’arte e della cultura. Da marzo 2020 ad oggi abbiamo redatto un manifesto programmatico in cui raccogliamo proposte concrete per colmare le carenze sistemiche nel settore, condotto ricerche comparate sul lavoro culturale in Italia e all’estero, stiamo costruendo modelli contrattuali che rispondano alle reali esigenze degli art workers, un tariffario e linee guida per gli enti culturali. Dialoghiamo con decisori politici, realtà nazionali e internazionali simili ad AWI, partecipato ad incontri e tavoli con enti impegnati sul fronte delle pratiche e delle politiche culturali. Abbiamo infine avviato collaborazioni e richiesto consulenze ad associazioni e cooperative che si occupano di indagini quantitative e analisi nel settore culturale: come dicevamo, stiamo lanciando la prima indagine di settore dedicata al lavoro nel campo dell’arte contemporanea in Italia. Frutto della collaborazione con ACTA, l’indagine vuole offrire un’analisi quantitativa e qualitativa delle condizioni lavorative dal punto di vista sociale, contrattuale e giuridico. Infine, stiamo creando schede riassuntive sugli strumenti giuridici e fiscali già esistenti per tutelare il lavoro degli art workers, compilate in collaborazione con la Prof. Avv. Alessandra Donati e il Dott. Commercialista Franco Mario Broccardi, nonché un glossario per le terminologie giuridiche e fiscali utilizzate altre risorse utili e strumenti di formazione».

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Tra i progetti in corso avete promosso una piattaforma internazionale che mette insieme gruppi, istituzioni e organizzazioni che si occupano dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori della cultura in Europa e nel mondo. Qual è la situazione che avete riscontrato a livello europeo in merito alle materie di tutela dei lavoratori del settore? Quali le differenze rispetto all’Italia?
«Il progetto Hyperunionisation , vincitore del bando Culture of Solidarity della European Cultural Foundation, intende facilitare il dialogo tra organizzazioni che si occupano di diritti delle lavoratrici e lavoratori della cultura in Europa, una piattaforma di scambio per implementare pratiche di solidarietà condivise e attivare un processo di formazione collettivo. Hypermates, nato in seno al progetto, è un network internazionale in continua evoluzione di realtà che si occupano della tutela dei lavoratori dell’arte contemporanea. Nonostante le problematiche siano assolutamente trasversali, molti paesi (e Hypermates ne è la prova) hanno visto sorgere e solidificarsi numerose iniziative volte alla tutela dei lavoratori, con risultati estremamente concreti. AWI vuole colmare questo gap italiano, avvalendosi del dialogo e della solidarietà internazionale».

Nella lettera inviata a Franceschini a maggio del 2020 indicavate una serie di punti necessari per un miglioramento del settore dell’arte. Il ministro ha mai risposto? Come?
«Il ministro non ha mai risposto, ma siamo stati invitati a partecipare al Tavolo Permanente per i lavoratori della cultura indetto dal Ministero della Cultura. Ci sembra un buon segno».

Negli ultimi anni si stanno studiando in materia giuridica nuove forme di tutela per dare risposta a una serie di esigenze legate alla costituzione di nuove figure di lavoratori non subordinati. Il digitale è stato senz’altro complice di modifiche e trasformazioni, da un lato creando nuove forme di lavoro, dall’altro andando a complicare ulteriormente la posizione di figure già deboli e non inquadrate da un punto di vista contrattuale. In che modo il discorso ha toccato il mondo dell’arte?
«Crediamo che la fuga digitale abbia accentuato problematiche già esistenti: lavoro ancor più sottopagato, non dichiarato e non riconosciuto, moltiplicarsi delle ore di lavoro, stress da monitor, autosfruttamento. How to Strike, tavola rotonda moderata da Vincenzo Estremo nel contesto del progetto Hyperunionisation, toccava proprio la genealogia generale del lavoro nell’attuale mondo medializzato, condividendo le tattiche di auto-organizzazione e le strategie di legittimazione tipiche di diverse categorie di lavoratorɜ. Di fronte alla flessibilità, alla “piattaformizzazione”, alla parcellizzazione delle relazioni interpersonali che hanno ridefinito il lavoro contemporaneo, l’arte e lɜ lavoratorɜ che operano in questo campo si pongono come osservatorɜ interessatɜ, cercando di capire quale ruolo attivo possano svolgere nel panorama più ampio dei movimenti sociali. La tavola rotonda metteva in dialogo le esperienze di legittimazione deɜ gig workers con i tentativi di organizzazione e protesta in campo artistico».

Il mondo dell’arte contemporanea in Italia ha goduto negli ultimi anni di importanti finanziamenti di natura privata. Le richieste di AWI sono invece finalizzate a sensibilizzare organismi statali e figure di governo rispetto a una materia che purtroppo gode di poca attenzione nell’opinione pubblica. Quale pensate debba essere il rapporto tra supporto statale e intervento privato?
«Il rapporto tra pubblico e privato necessiterebbe una regolarizzazione: pensiamo all’annoso discorso relativo alla riforma del terzo settore. Non dovremmo limitarci a pensare al privato solo come soggetto interessato a sponsorizzare iniziative d’arte contemporanea, ma rimarcare in senso più ampio il ruolo dei detentori di grandi capitali, che ora più che mai potrebbero contribuire alla buona salute della pubblica cultura – e sanità, istruzione e via dicendo. Vedremmo estremamente di buon occhio uno dei provvedimenti più invisi alla classe politica e all’opinione pubblica italiana: la cara, vecchia patrimoniale. Per il resto, già dalla prima stesura del nostro Manifesto proponiamo l’ampliamento della platea degli enti che possono accedere a forme di mecenatismo – come l’Art Bonus – e delle attività che può sostenere, unitamente a ulteriori agevolazioni fiscali per le erogazioni liberali a sostegno dell’arte contemporanea e la facilitazione di forme di sponsorizzazione in arte contemporanea colmando il gap informativo esistente fra possibili sponsor e sponsee».


Intervista pubblicata  su “Inside Art” il 4 maggio 2021. Fotografia dalla pagina Facebook di AWI.

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