Tomaso Montanari
Pubblichiamo l’articolo che non riguarda strettamente temi di questo sito per solidarietà con l’autore e per ribadire l’assoluta opposizione di Emergenza Cultura ad ogni forma di censura del pensiero critico se espresso, come in questi casi, in forme che non ledano i diritti umani.
Giovedì scorso, Twitter ha bloccato il mio account, nientemeno che per “violazione delle regole contro la violenza esplicita della foto del profilo e i contenuti per adulti nelle immagini del profilo”, specificando che viene considerata “violenza esplicita qualsiasi forma di contenuto multimediale che raffiguri sangue, correlato a morte, lesioni gravi, violenza o procedure chirurgiche”. Tutto bene, se non fosse che l’immagine incriminata era il dolce e sognante San Giorgio e il drago di Paolo Uccello, dove un pudico rivolo rosso scende dalle fauci di un drago dalle ali di farfalla, tenuto al guinzaglio da una filiforme damina di porcellana orientale in babbucce rosse.
Guai se sul profilo avessi messo un Caravaggio sanguinolento, un qualunque Sebastiano sforacchiato dalle frecce: per non dire un Cristo in croce. Non metterebbe conto intrattenersi sulla notissima stupidità degli algoritmi né sull’ipocrita perbenismo dei loro gestori, ma i messaggi che hanno fatto seguito alla singolare notizia mi hanno fatto capire che non pochi utenti di Twitter non avevano per nulla gradito la trasparente allusione di quella immagine alla mia non travolgente simpatia per il governo Draghi. Anzi, mi è parso di capire che il mio profilo sia stato segnalato ai gendarmi virtuali proprio da qualcuno che trovava irriverente, irrispettoso, indecente scherzare sul cognome del presidente del Consiglio. È bene dire chiaramente – vista la poca ironia in circolo – che non c’è nemmeno la più remota volontà di associare la persona di Mario Draghi ai draghi infilzati che popolano la nostra storia dell’arte. È solo un modo – pacifico, disarmato, minoritario: ironico, appunto – per far capire che non tutti lo considerano, sul piano politico, un messia, un redentore, un uomo della Provvidenza. Ma anche questo è difficile, visto il clima di forzosa, pelosa unità.
Un altro esempio: oltre un mese fa (l’8 febbraio, quando Draghi non aveva ancora sciolto la riserva), mi permisi di postare su Instagram l’immagine di una scritta su un muro trovata in rete (e chissà se davvero esistente nella realtà), che recitava (absit iniuria verbis): “Draghi ha già rotto il cazzo”. Una scritta geniale (a quella data precocissima, e a fronte della terrificante canonizzazione a testate unificate) che così, ironicamente, commentavo: “Allora l’alluvione di servile melassa che trabocca da giornali e tv, le grida del mucchio selvaggio fasci inclusi, non hanno del tutto spento l’indomito pensiero critico degli italiani. Qualche speranza (con la minuscola) c’è”. Ebbene, pochi giorni fa una canea fascista – guidata dal Secolo d’Italia, e rimbalzata in varie fogne della rete – ha chiesto per quel post nientemeno che le mie dimissioni da professore universitario e da tutti i comitati scientifici (peraltro gratuiti) in cui mi trovo, una campagna che ha trovato strumentale ascolto tra i più servili frequentatori del Ministero della Cultura.
L’estrema destra sente evidentemente questo governo come il proprio, e non ha ancora realizzato che è stato abrogato il giuramento di fedeltà dei professori al regime: la critica è libera, anche nelle forme più radicali. Ma una cappa di destra è scesa su tutto il Paese: nessun dissenso deve turbare l’amorosa ammucchiata dei partiti e dei giornali. Nessuno: nemmeno quello di una piccola “scrittura esposta”, tutta costruita sull’espressione che Gigi Proietti ha elevato in poesia. Perché, mi viene ormai da pensare, era evidentemente san Giorgio il cavaliere nero a cui proprio no, “nun je devi cacà er cazzo”.
E allora, come ai tempi della Repubblica di Genova, mi piacerebbe veder garrire ovunque le bandiere di san Giorgio: un cavaliere medioevale che oggi rinasce come allegoria del dissenso che difende la principessa (l’Italia, va da sé) dal veleno del drago (l’oligarchia finanziaria al governo, è ovvio), infilzando quest’ultimo con la lancia affilatissima del pensiero critico. E c’è solo l’imbarazzo della scelta: anche perché (ironia nell’ironia) i draghi sono sempre stati simboli delle pestilenze, dei virus. Da qui l’alluvione dei san Giorgi, liberatori e guaritori: da quello cerimoniale, elegantissimo, di Pisanello a quello allucinato di Cosmé Tura a Ferrara, che uccide il suo drago con un “gesto fragile, sventato” (Longhi); da quello rampante di Crivelli a quello di Carpaccio, che carica al rallentatore in una vallata punteggiata dalle ossa aride delle vittime del drago, a quelli di Raffaello, atletici e impassibili, a quello di Tintoretto, che finisce il drago sullo sfondo, sotto un cielo stravolto. L’elenco potrebbe continuare: tanto a lungo da far saltare qualunque algoritmo da animalisti fantastici.
Ma chiudiamola nel modo gentile con cui i catalani festeggiano san Giorgio, il 23 aprile: regalandosi rose rosse. Rosse come quella che così si tinse nel sangue del drago ucciso dal santo, rosse come quelle che doniamo idealmente all’esercito degli amici dei draghi. Spine incluse, s’intende.