L’Angelo che danza sull’orlo dell’abisso

di Tomaso Montanari

«E se l’orecchio dicesse: “Poiché io non sono occhio, non appartengo al corpo”, non per questo non farebbe più parte del corpo. Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l’udito? Se fosse tutto udito, dove l’odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; né la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”».

Bisognerebbe ripetere come un mantra, a mo’ di esorcismo, questo famoso passo della prima Lettera di Paolo ai Corinzi ogni volta che un ministro, un sindaco, un assessore esalta i ‘capolavori assoluti’ che vorrebbe ‘valorizzare’, ovviamente spedendoli a qualche ‘grande mostra’. Leonardo, Caravaggio e poco altro: il corpo (metaforico, ma in fondo assai fisico) del nostro patrimonio culturale ci pare tutto ‘occhio’ o ‘udito’, e dimentichiamo che molte sono le membra, e che quel che conta, alla fine, è proprio l’integrità (e dunque la vitalità) del corpo.

Per questo è così doloroso che la chiusura della chiesa di San Rufo a Rieti (inagibile per le conseguenze del sisma del 2016, ma soprattutto per la nostra incapacità di capire l’importanza di tutto il corpo del patrimonio) ci privi di un organo vitale, non meno essenziale dei Caravaggio visibili nelle chiese di Roma e in tanti musei italiani. Eccolo: è l’indimenticabile quadro che fu dipinto entro il 1620 dal romano Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino (1585-1652), folgorato, come tanti suoi coetanei, dalla rivoluzione caravaggesca.

Spadarino pensa una intera pala d’altare come una sorta di ‘passo a due’: un ballo scherzoso e rischioso tra due fratelli, guidato da quello adolescente e come subìto da quello ancora bambino, che si spaventa quando si accorge di star danzando sull’orlo di un abisso. Il tema è quello dell’angelo custode che protegge l’anima dalla voragine del peccato: ma questo svolgimento tutto risolto in studio, con due corpi, qualche panno e due ali finte su un fondo nero è davvero la quintessenza della rivoluzione caravaggesca.

Un filo lega il nostro quadro alle altre opere di questo grande artista: e forse tutti conoscono il suo dolcissimo Narciso di Palazzo Barberini, da alcuni nostalgici ritenuto ancora opera dello stesso Caravaggio. Ma l’angelo danzante di Rieti è ancora più riuscito, e importante: e ci ricorda che un altro filo, continuo e lunghissimo, cuce tutti i capolavori che compongono il nostro patrimonio, ovunque si trovino. Capolavori meravigliosamente relativi.


Articolo pubblicato su “il venerdì”, 18 settembre 2020

Immagine in evidenza: fotografia di Alessandro Antonelli da Wikimedia Commons
Immagine nel testo da
Wikimedia Commons: Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino, L’Angelo custode, 1616-1620