di Teodoro De Giorgio
Con l’entrata in vigore del Decreto-Legge 104 del 14 agosto 2020 (“Decreto agosto”), le Soprintendenze, ovvero gli organi periferici del Ministero dei Beni culturali posti a presidio del patrimonio culturale degli italiani, possono autonomamente, e senza il ricorso ad alcun concorso pubblico, nominare singoli collaboratori esterni, anche privi della laurea e di ulteriori titoli accademici, “al fine di assicurare lo svolgimento nel territorio di competenza delle funzioni di tutela e di valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio” (articolo 24, comma 1).
Gli incarichi saranno a tempo e ben remunerati, fino a un massimo di 40 mila euro l’anno, arrivando a prevedere per i collaboratori l’attribuzione delle funzioni di responsabile unico del procedimento (R.u.p.). Basterà avere maturato una qualche esperienza in attività affini.
Cosa significa, nella pratica, questo? Che la politica ha deliberatamente sconfessato il ruolo strategico della formazione accademica. Che lo Stato ripudia se stesso nel non riconoscere il valore dei titoli di studio da lui stesso rilasciati. Che è sminuito l’operato di quei docenti universitari che con zelo e dedizione hanno garantito la formazione dei giovani, i cui studi e i cui sacrifici non sono rispettati.
Ma soprattutto significa mettere a repentaglio la corretta e democratica gestione del nostro patrimonio culturale, le cui sorti verranno consegnate nelle mani di collaboratori esterni che avranno la responsabilità degli appalti pubblici delle Soprintendenze.
Provo a spiegarmi meglio. Se negli ultimi tempi la scissione tra Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca e Ministero dei Beni culturali si è inesorabilmente consumata a danno della formazione accademica, l’affidamento di una delicata funzione amministrativa di controllo, quale quella del responsabile unico del procedimento, a personale esterno individuato per chiamata diretta, finanche privo – è bene ribadirlo – di lauree, specializzazioni e dottorati, è una novità che sconcerta per il palese non-sense.
I collaboratori, infatti, faranno le veci di una sorta di amministratori di sostegno per Soprintendenze incapaci di provvedere alle proprie necessità, con l’aggravante che potrebbero benissimo non essere all’altezza dei ruoli ricoperti.
Poniamo il caso di interventi edilizi privati in aree sottoposte a vincolo paesaggistico: il R.u.p. è chiamato a effettuare i dovuti accertamenti, a richiedere eventuali integrazioni nella documentazione, a curare l’istruttoria e ad acquisire il necessario parere della Commissione per il Paesaggio. La responsabilità, le competenze e la perizia tecnica necessarie sono tali che una leggerezza nella valutazione comporterebbe modifiche irreparabili all’aspetto dei luoghi e dei paesaggi tutelati per Legge.
Ora, come spiegare ai tanti giovani, spesso ultra formati, in attesa che i concorsi già banditi dal Ministero dei Beni culturali siano espletati o che ne vengano banditi di nuovi, che i loro titoli di studio e i loro investimenti in conoscenza sono tenuti in così poca considerazione dai decisori politici? O che a livello burocratico si preferisce nominare collaboratori esterni ad libitum piuttosto che assumere ipso iure personale qualificato per rimpinguare le fila degli sparuti funzionari tecnici delle Soprintendenze?(*)
Addenda (28 agosto 2020): A prescindere dalla “comprovata specializzazione universitaria”. Ancora su Soprintendenze e articolo 24 del Decreto agosto
La facoltà accordata alle Soprintendenze dall’articolo 24 del Decreto-Legge 104 del 14 agosto 2020 (“Decreto agosto”) di nominare in autonomia, e senza il ricorso ad alcun concorso pubblico, singoli collaboratori esterni, anche privi della laurea e di ulteriori titoli accademici, ai fini dell’affidamento delle funzioni di Responsabile unico del procedimento (R.u.p.), ha suscitato critiche e perplessità negli addetti ai lavori, nel mondo accademico e nei cittadini sensibili alle sorti del patrimonio culturale italiano.
La questione, che il 26 agosto scorso ho denunciato sulle pagine (virtuali) dell’Huffington Post, merita un piccolo approfondimento, prettamente giuridico, a vantaggio dei lettori più esigenti.
L’articolo 24 dispone che le assunzioni di collaboratori esterni individuati per chiamata diretta dagli organi periferici del Ministero dei Beni culturali (le Soprintendenze) sono autorizzate ai sensi dell’articolo 7, comma 6, del Decreto legislativo 165 del 30 marzo 2001, recante norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. L’articolo 7, modificato dal Decreto legislativo 75 del 25 maggio 2017, contiene alla lettera d la formula presente: “Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in caso di stipulazione di contratti di collaborazione per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell’arte, dello spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di cui al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore”. Da ciò si inferisce che in determinate circostanze, quali quelle di coloro che operano nei campi dell’arte, dello spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività informatica, i collaboratori esterni possono essere privi della “comprovata specializzazione universitaria”; espressione quest’ultima che, in apparenza, sembrerebbe designare un titolo post lauream (il diploma di specializzazione in storia dell’arte o in archeologia), lasciando presupporre quello della laurea magistrale, condicio sine qua non per il conseguimento del titolo post lauream medesimo. Le cose, in realtà, non sono così semplici e scontate come appaiono. Con apposita Circolare 2 dell’11 marzo 2008, il Ministero della Funzione Pubblica ha precisato che con tale espressione deve intendersi il possesso di una “laurea magistrale o del titolo equivalente”. A scanso di eventuali equivoci, l’articolo 46, comma 1, del Decreto-legge 112 del 25 giugno 2008 ha sostituito la formula “comprovata specializzazione universitaria” con quella di “comprovata specializzazione anche universitaria”, dove la congiunzione “anche” è chiaramente finalizzata a prescindere dal possesso del titolo accademico.
In un momento storico nel quale è fondamentale, e doveroso, valorizzare la formazione accademica e la preparazione dei giovani non si capisce il senso di queste norme, le cui ambiguità incentivano un’applicazione pro domo sua.
Non ci resta che confidare nella lungimiranza dei dirigenti delle Soprintendenze, responsabili sul piano amministrativo della stipula dei contratti di collaborazione.
(*) Articolo pubblicato su “Huffington Post”, 26 agosto 2020
Fotografia di Kaga tau da Wikimedia Commons