di Tomaso Montanari
«Quando si decise di costruire un altro stabilimento siderurgico nel Sud, dopo quello di Bagnoli, la scelta ricadde su Taranto in modo quasi naturale. … Il disfacimento della produzione bellica e il ridimensionamento dei cantieri navali avevano già segnato la città moderna sorta pochi decenni prima accanto alla città vecchia in cui per secoli la vita era stata racchiusa, proprio come in un’ostrica, in un dedalo di vicoli e in un gomitolo di case accatastate le une sulle altre. … Il centro siderurgico costò quasi quattrocento miliardi di lire. Finì con l’occupare prima 600 e poi 1500 ettari di superficie, per un’estensione pari al doppio dell’intera città … Il mito dell’industria – mentre il capoluogo mutava – si radicò e rafforzò ulteriormente. È stato così fino alla fine degli anni ottanta, quando il sistema della partecipazioni statali, che reggeva l’industrializzazione di Stato, ha iniziato a mostrare le sue crepe. La percezione del disastro ambientale, invece, è divenuta cosa comune solo in seguito».
Sono parole di Alessandro Leogrande, uno dei migliori intellettuali italiani della sua generazione (che è anche la mia). Alessandro se n’è andato, davvero troppo presto, ma attraverso le sue parole e il suo amore ci ha lasciato anche i suoi occhi. Che servono a guardare il mondo, l’Italia, il Mezzogiorno e la sua città: Taranto. Una città simbolo: perché inghiottita e come cancellata da un sogno industriale che si è rivelato un terrificante incubo, da cui non riesce a svegliarsi.
Dall’ingresso dell’Ilva al Cappellone di San Cataldo, in fondo al Duomo di Taranto, ci sono meno di quattro chilometri: quaranta minuti a piedi di buon passo.
Si potrebbe pensare che a dividerli sia molto di più. Da una parte una straordinaria cappella ellittica, sul modello di quelle con cui Borromini aveva cambiato il corso della storia dell’arte, coperta di marmi colorati, popolata di statue di marmo e d’argento e coronata da un paradiso di affreschi. Dall’altra un enorme drago industriale che sbuffa veleni e mangia ambiente, salute, vite. La bellezza contro la distruzione, l’arte contro la morte.
A ben guardare, tuttavia, le cose stanno in modo un po’ diverso.
Il barocco è un inganno. Un inganno dei sensi: portati, quasi per forza, a innalzarsi verso le rarefazioni del Cielo, a dimenticare la sofferenza del mondo. Quel meraviglioso Cappellone fu voluto da un vescovo napoletano che apparteneva a una importante famiglia aristocratica, e fu portato a termine da altri vescovi. Potenti paracadutati a Taranto che portavano una lingua lontana: meravigliosa, fluida, illusiva. Una lingua che doveva persuadere, dilettare, convincere. Entrando in questo luogo incantato, il cittadino di Taranto doveva sentirsi grato: e poi non pensare più, ma semmai ‘sentire’, emozionarsi. Essere grato, e sperare di avere anche lui, un domani, posto in quel cielo che non gli era mai sembrato tanto vicino, tanto credibile.
Ebbene, con l’Ilva non è accaduta un po’ la stessa cosa?
Un paradiso artificiale deciso fuori, e offerto come un dono ai tarantini. La promessa di un benessere diffuso, l’invito a non pensare (e a non contestare): un paradiso in cui desiderare un posto anche per i figli.
Da secoli la macchina del potere gira per costruire consenso e farti sentire come la parte di un tutto: un tutto positivo, anzi salvifico. L’arte sacra del Barocco invitava i tarantini a uscire dal guscio della loro vita chiusa nelle strette vie della città storica per perdersi in un abisso di luce e colore: una promessa di felicità senza fine.
L’industrializzazione di Stato ha invitato i loro discendenti a uscire dalla loro stessa storia, per perdersi in un’esperienza comune a milioni di uomini e donne del Novecento: anch’essa, a suo modo, una promessa di felicità senza fine.
Oggi la domanda è: i tarantini che non si sono ribellati all’antico regime e ai suoi paradisi artificiali, sapranno ora alzare la testa e riprendersi il futuro?
Il Cappellone di San Cataldo, nel frattempo, ha cambiato ruolo. Oggi è parte di quella storia e di quel patrimonio la cui conoscenza alimenta il pensiero critico e la coscienza di sé. Oggi entriamo in quel luogo non solo per pregare o per ammirarne l’arte: ma anche per costruire noi stessi come cittadini consapevoli e attivi. Non più un luogo per sognare a occhi aperti, ma un luogo da cui uscire più determinati a cambiare il mondo di oggi. Quelle pietre preziose, quelle figure di marmo, quel caleidoscopio di colori possono oggi alimentare una rivoluzione fondata sulla conoscenza, sullo sviluppo della cultura. Sciogliendo così il piede dei pronipoti di quei tarantini che restavano lì estatici, a testa in su. E che oggi, se vogliono tornare a respirare, hanno solo una strada: contestare le promesse di paradiso, per riprendersi aria, cielo, mare.
Articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”, 10 agosto 2020
Fotografia di Beren85 da Wikipedia
[…] colonne de “Il Fatto Quotidiano” dello scorso 10 agosto hanno ospitato un articolo di Tomaso Montanari su Taranto, con un parallelo tra Cappellone di San Cataldo e ex-ILVA che viaggia sul presunto filo rosso […]
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