di Tomaso Montanari
Per mesi siamo rimasti appesi ad ogni parola che usciva dalle labbra di ricercatori e scienziati: ma non stiamo facendo nulla perché ricercatori e scienziati continuino ad esistere. Anzi, sembra che siamo ben decisi a scoraggiare chi sta provando a dedicare la propria vita alla ricerca: i dottorandi.
Ci siamo tutti (comprensibilmente) preoccupati del funzionamento di ristoranti e stabilimenti balneari, ma forse non abbiamo pensato che, tra le infinite cose che si sono dovute fermare a marzo, ce n’è una che si chiama ricerca. Una cosa che, a differenza di quasi tutte le altre, non è ancora ripartita: perché senza poter accedere a laboratori, biblioteche, archivi, missioni all’estero, attività sul campo, la ricerca semplicemente non si fa. Ci si può chiedere perché non si possano ancora riaprire, per esempio, biblioteche ed archivi: ma il lettore di questa rubrica conosce già la risposta, che sta nei dissennati tagli al personale di questi santuari della conoscenza perpetrati da governi di ogni colore. E ora la pandemia ha sferrato il colpo di grazia.
Ma mentre per i professionisti della ricerca assunti a tempo indeterminato (all’università o al Cnr, per esempio) ciò è “solo” motivo di grande frustrazione, per i dottorandi di ricerca si traduce nell’impossibilità di finire la tesi nei tempi stabiliti, e quindi in un lungo periodo di ricerca non retribuito per terminarla quando sarà possibile farlo, e ormai la borsa sarà esaurita. Per questo i dottorandi della più grande università italiana, la Sapienza di Roma, hanno chiesto al governo: “L’estensione della proroga facoltativa retribuita con fondi pubblici a sei mesi e a tutti e tre i cicli (33°, 34° e 35°) nel caso dei dottorandi borsisti, e chiediamo altresì il riconoscimento ai dottorandi ex art. 5 e 6 e senza borsa di una proroga anch’essa di sei mesi, sollecitando il governo a prevedere misure di tutela e sostegno economico specifiche per questa ultima categoria già discriminata dalla normativa vigente. Riteniamo inoltre che tali misure di sostegno da parte del governo non debbano avere ricadute negative sulla valutazione dei singoli dottorandi e dei programmi di dottorato a cui afferiscono. Infine, convinti della necessità di democratizzare il sistema della ricerca e di liberarlo da logiche di tipo aziendalistico, proponiamo la sospensione della Vqr 2015-2019. Consideriamo infatti un grave errore la scelta da parte del Mur e dell’Anvur di non riconoscere l’attuale, oggettiva impossibilità al normale funzionamento del sistema universitario e, conseguentemente, al normale svolgimento dell’attività di ricerca al suo interno”.
Come appare chiaro, e come accade in moltissimi altri campi, il Covid non ha fatto che portare alla luce l’estrema fragilità del nostro sistema di formazione dei ricercatori. Una fragilità che, invece di curare, incrementiamo: nel Decreto Semplificazioni appena approvato dal governo Conte, per esempio, viene introdotta la possibilità di ridurre il numero dei mesi degli assegni di ricerca, in un’ulteriore flessibilizzazione che si tradurrà puntualmente in maggior precarizzazione, insicurezza, sfruttamento.
Che idea ha del proprio futuro una società che dice di voler farsi orientare dalla scienza e poi distrugge il futuro della scienza stessa? Eppure, nel progetto della nostra convivenza civile, la Costituzione, la ricerca ha un ruolo straordinariamente importante. In uno dei dodici principi fondamentali (il profetico articolo 9) si legge che “la Repubblica promuove … la ricerca scientifica e tecnica”: cioè quella di base e quella applicata. I costituenti avevano ben chiara l’utilità materiale e spirituale della ricerca, come si capisce dal decisivo intervento del deputato (e professore di ingegneria a Napoli) Giuseppe Firrao: “Assicurate, onorevoli colleghi, strumenti come questi all’intelletto della nostra gente e voi darete un reale apporto all’incremento di ricchezza del nostro Paese; voi offrirete mezzi sicuri per concorrere, in modo efficace, alla nostra rinascita economica, e per mantenere, ancora accesa, da questo Paese, una fiaccola di alta civiltà nel mondo”.
Come farlo? C’è un solo modo, spianare la strada a chi vuol fare ricerca: “Il doloroso andarsene degli scienziati italiani, onorevoli colleghi – disse il deputato, e fisico, Antonio Pignedoli – è un altro punto che voglio richiamare all’assemblea Costituente italiana. Gli scienziati se ne vanno dall’Italia per ragioni di trattamento, per ragioni proprio inerenti alla possibilità di vivere. … Gli scienziati se ne vanno, ma il doloroso calvario degli scienziati, che se ne vanno all’estero e che la Patria perde, dovrà essere finito una volta per sempre. La Repubblica democratica italiana dovrà provvedere ai suoi ricercatori, dovrà provvedere a questi suoi lavoratori della mente; dovrà provvedere a questi suoi figli più eletti”.
Era l’aprile del 1947: settantatré anni dopo, non l’abbiamo ancora capito.
Articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”, 20 luglio 2020
Fotografia di Aaron Burden da Unsplash