di Tomaso Montanari
Ho fatto la pace con la mia città. È uno degli inattesi regali della pandemia: perché gli umani hanno imparato a cavare il bene dal male. La pace la fa chi si trova in guerra: e, sì, ero in guerra con Firenze. Non sono certo il solo: un mio illustre concittadino, Franco Fortini, le dedicò una poesia che si intitola La città nemica. «Firenze è una città volgare» (Antonio Tabucchi), prostituita a un turismo che la uccide, amministrata orrendamente, immemore della generosa lungimiranza di suoi figli come La Pira, Milani, Balducci. Ma nei giorni del confinamento qualcosa è rinato: solidarietà verso i poveri, pensieri finalmente liberi, strade e piazze di nuovo accessibili. Vedremo se abbiamo capito: se l’arte e la storia saranno ancora solo un baraccone da aprire a pagamento, o se ci torneranno in circolo, rifacendoci umani.
Io, intanto, ho fatto pace camminando. Si potevano vedere i congiunti, si è detto. E fare passeggiate di prossimità. Così ho girato forse tutte le strade del mio quartiere: l’Oltrarno, stretto tra il fiume e il monte. I nomi dei congiunti stavano scritti sulle facciate delle loro case: Filippo Neri e Maria Maddalena de’ Pazzi, Francesco Ferrucci e Galileo, Elizabeth Barret Browning e Alphonse de Lamartine, Giuseppe Bonaparte e Georgina Craufurl, Francesco Guicciardini e Fedor Dostoevskij, Antonio Meucci e Paolo dal Pozzo Toscanelli, Ugo Foscolo e il Lasca, e Andreij Tarkovskij…
Sono solo alcuni degli abitanti dell’Oltrarno. Uno di loro, Carlo Levi, ha spiegato una volta che «forse è proprio questo il primo dei caratteri che distinguono l’Italia: quello di essere il Paese dove si realizza, in modo più tipico e diffuso e permanente che altrove, la contemporaneità dei tempi. Tutto è avvenuto, tutto è nel presente. Ogni albero, ogni roccia, ogni fontana contiene dentro di sé gli dei più antichi. L’aria e la terra ne sono impastate e intrise. Con gli Dei, gli uomini e i loro fatti: sui selciati delle strade, sugli asfalti delle automobili, risuona l’eco di passi innumerevoli. Il macellaio del Ghetto di Roma è installato nella cornice di marmo dell’ingresso sacro a una qualche divinità pagana; il ristorante dove uso cenare ha i tavoli tra l’‘opus reticulatum’ e i rocchi di colonne del Teatro di Pompeo, all’incirca là dove Cesare cadde».
Il dialogo incessante con gli spiriti magni che hanno gioito e sofferto agli angoli delle nostre vie quotidiane, innalza il nostro spirito, e ci fa umani. La teologia cattolica la chiama ‘comunione dei vivi e dei morti’, la Costituzione lo chiama patrimonio storico e artistico. Noi potremmo chiamarli ‘congiunti’.
Articolo pubblicato in “il venerdì”, 29 maggio 2020
Fotografia di Sailko da Wikimedia Commons