di Alessio De Cristofaro
Ai tanti, volenterosi, consigli offerti al Governo in materia di futuri, eventuali sussidi al mondo dei BBCC, mi permetto di aggiungerne qualcuno anche io, dal basso della mia concreta esperienza quotidiana nella filiera della cultura, prima come professionista, ora come funzionario archeologo. Le disastrose conseguenze che il Covid-19 sta avendo sul mercato del lavoro sono solo agli inizi: l’immediato arresto di tutte le attività professionali e produttive correlate al Patrimonio, che tanto dolore e disagio ha già portato, proseguirà nei prossimi mesi, aggravandosi non solo sul piano economico, ma su quello culturale e umano.
Le soluzioni possibili proposte finora sono molte, a volte confuse, altre capziose: si vorrebbero fondi in soccorso di aziende private e fondazioni che per anni, in opachi regimi di monopolio, hanno ampiamente attinto al Patrimonio per realizzare profitti; si predispongono sussidi una tantum per migliaia di persone che, certo grate di un temporaneo aiuto, vorrebbero però offrire le proprie competenze alla rinascita del Paese e al benessere di tutti noi, con il lavoro.
In tanta concitazione, mi sembra che una soluzione, tra le tante possibili, sia già sotto gli occhi, se solo la si volesse vedere: stanziare dei fondi straordinari per Soprintendenze e Musei. Mi spiego meglio. Musei, Istituti autonomi, Direzioni Museali Regionali e Soprintendenze sono da sempre stazioni appaltanti: ovvero strutture in cui si progettano, organizzano e gestiscono lavori sul Patrimonio, affidandone lo svolgimento anche a privati, professionisti e imprese. La riforma Franceschini, ha reso autonomi sul piano amministrativo molti di questi istituti, dimenticando, tuttavia, di dotarli di fondi adeguati e solo pochi istituti (Uffizi, Colosseo, Pompei etc.) sono in grado di essere effettivamente tali con introiti da bigliettazione e altro. Gli altri, Musei, Parchi e Soprintendenze annaspano per sopravvivere, tenendo fede alla loro mission solo grazie all’abnegazione del personale. Tra l’altro, con la tragedia del Covid-19 anche gli Istituti “ricchi” dovranno tirare la cinghia, e non di poco: il crollo della bigliettazione e dell’associato merchandising, ridurranno di parecchi zeri le dotazioni finanziarie di queste strutture, con conseguenze facilmente immaginabili.
Eppure, proprio partendo da tutti questi Istituti, si potrebbe rimettere in moto il mercato del lavoro nei BBCC, potenziando la missione di civilizzazione e crescita del Paese a cui il MiBACT dovrebbe attendere. Musei e Soprintendenze dotate di fondi straordinari potrebbero far lavorare archeologi, restauratori, architetti, storici dell’arte, antropologi, curatori museali, esperti di comunicazione, tecnologi, geometri, amministrativi, informatici, attorno a progetti concreti. Gli istituti del MiBACT traboccano di bei progetti e grandi idee, quasi sempre rimasti sulla carta per mancanza di fondi e di personale; fuori dal Ministero, un esercito di professionisti preparati e motivati sogna di poter finalmente pensare e lavorare in grande, e non campando alla giornata. Un fondo straordinario di qualche centinaio di milioni di euro da distribuire equamente per tutti gli istituti del Paese potrebbe essere l’uovo di Colombo.
Qualcuno dirà che sono le utopie di un sognatore: sono da superare le pastoie burocratiche, il Codice degli Appalti, la carenza di personale, gli aspetti amministrativi e così via, giù per quelle strade solite che portano alla rassegnazione del non fare o, peggio, all’idea dell’emergenza che tutte le regole abolisce. Ma questa è una scusa buona solo per i pigri, o per i furbi.
Il Codice degli Appalti permette già, entro certe soglie, di agire presto e con efficacia. Basterebbe allora programmare la spesa di questo fondo eccezionale con cautela. Una prima fase, sei/otto mesi circa, in cui si affidano lavori entro soglia con incarichi diretti o gare a invito ristretto, rispettando rigorosamente le regole del merito, della rotazione e dell’anticorruzione: in questa fase si potrebbero sviluppare progetti esecutivi, software, piccoli restauri, catalogazioni, piccoli scavi, prodotti multimediali, attività social (professionali, no quelle all’amatriciana attualmente in voga…). Una seconda fase, invece, in cui, con gare, si realizzerebbero interventi di medie e grandi dimensioni, opportunamente programmati e valutati nei mesi precedenti, e rigorosamente orientati a uno sviluppo di lungo periodo del sistema del Patrimonio Culturale, quale volano di crescita etica ed economica di tutto il Paese, non solo delle sue perle più famose.
In questo modo si darebbero subito lavoro e ossigeno alle migliaia di lavoratori del settore, che nella gran parte sono singoli professionisti o ditte di piccola entità, senza ricorrere a misure lesive della dignità professionale e dei diritti del lavoro. Il mondo che orbita attorno al Patrimonio Culturale è un pulviscolo di energie straordinarie, fatto di grandi competenze e tenacia. Dare solo contributi assistenzialistici o, peggio, stanziare fondi a soccorso di quei privati che, dai tempi di Ronchey, hanno praticato un’economia della cultura oligarchica e commerciale, significa forse scegliere la strada più facile, quella a cui tutti ormai da anni sembriamo esserci rassegnati.
Ma le cose non stanno così. Quando ho cominciato a fare questo lavoro, l’archeologia a Roma viveva ancora sulla scia di quella straordinaria stagione degli Argan, dei Petroselli, dei La Regina, dei Cederna, in cui, con stanziamenti eccezionali (la Legge Biasini), la città era rinata grazie agli investimenti culturali. Una stagione in cui lo Stato era protagonista e guida, con noi privati cittadini a collaborare in quanto parte consapevole di un tutto più grande del singolo interesse. Musei e soprintendenze sono come le scuole, gli ospedali, le biblioteche: sono beni di noi tutti, che funzionano perché ci lavora gente preparata, ma che senza le risorse necessarie rendono al minimo.
Guardando i fatti tragici di queste settimane, l’opinione pubblica ha costatato un elemento lapalissiano: gli ospedali pubblici funzionano molto meglio delle cliniche private; soprattutto, concepiscono la salute del cittadino come un diritto di base, non come l’occasione per un profitto. Ecco, mutatis mutandis, mi verrebbe da dire lo stesso: nessuno sa tutelare e valorizzare il Patrimonio Culturale come i Musei e le Soprintendenze; nessuno è in grado di far sì che una risorsa come la cultura sia al tempo stesso lievito etico ed economico del Paese, se non lo Stato, anzi la Repubblica, nel senso costituzionale di tutti i cittadini impegnati, come professionisti o volontari, in questo campo. Prenderne atto e scommettere sulle capacità dello Stato in questo settore, potrebbe essere un salutare atto di orgoglio, oltre che di igiene politica. I dipendenti pubblici del Patrimonio non solo sono preparati e resilienti, ma anche animati da una grande passione civile: hanno energie e strumenti per portare a obbiettivo un simile progetto, a dispetto di chi periodicamente cerca di svenderli o svilirli. Provare a cambiare in questo difficile momento storico è una possibilità; l’alternativa è continuare a piangere su un film già visto.
L’autore è funzionario archeologo presso il Mibact
Fotografia di Manuele Dellanave da Wikimedia Commons