di Tomaso Montanari
‘Come dopo la Peste nera venne il Rinascimento, così un nuovo Rinascimento ci aspetta dopo il coronavirus’: complice una disperata fame di futuro, questo spericolato sillogismo viaggia da settimane sulla rete. Esaminarlo con un po’ di calma serve a prendere le distanze dalla fallace formuletta storica: ma anche a provare a mettere a frutto le innegabili suggestioni che scatena.
Ebbene, se per Rinascimento intendiamo la rivoluzione artistica innescatasi a Firenze nel secondo decennio del Quattrocento, è davvero arduo stabilire un rapporto di causa-effetto con la devastante epidemia che fece probabilmente venti milioni di morti in Europa quasi settant’anni prima, tra il 1347 e il 1353.
Il dominio dello spazio e della sua rappresentazione conquistato da Filippo Brunelleschi, le figure vive ed emotivamente coinvolgenti di Donatello, i corpi tangibili e lo stile puro e senza ornato di Masaccio affondano le radici in fatti figurativi che precedono la grande epidemia: nella scultura di Nicola Pisano, nella pittura del padre Giotto – e cioè nell’ultimo quarto del Duecento e nella prima metà del Trecento. Un celebre saggio dello storico dell’arte americano Millard Meiss (Pittura a Firenze e Siena dopo la Morte Nera, 1951) suggeriva addirittura di leggerla al contrario: e cioè di legare all’esperienza terribile della Peste quella sorta di rifiuto della realtà che raggela i seguaci di Giotto nel secondo Trecento.
D’altra parte, bisogna sempre stare molto attenti a non cedere alla tentazione di ‘spiegare l’arte con la società’: perché quasi mai è possibile dimostrare una derivazione meccanica. Un esempio clamoroso riguarda il più importante ciclo pittorico italiano che rappresenta il Trionfo della morte: quello del Camposanto di Pisa. Per molto tempo lo si è letto come il più impressionante e diretto riflesso figurativo della terribile esperienza della grande Peste, collegandolo strettamente al Decamerone di Boccaccio: ma nel 1974 Luciano Bellosi dimostrò che si trattava di un’opera del pittore Buffalmacco da datare sicuramente al 1340, cioè quasi dieci anni prima che infuriasse la Peste.
Dunque, nessun nesso tra peste e Rinascimento? Se passiamo la domanda al setaccio, a maglie più larghe, della storia delle idee, le risposte possibili si fanno interessanti. Perché gli uomini di metà Trecento, «attraverso il doloroso confronto con l’immagine e il sentimento della loro sorte organica, giunsero ad affermare irrevocabilmente proprio l’amore della vita ed il valore essenziale dell’esistenza terrena». Sono parole di un bellissimo libro di Alberto Tenenti, assai eloquente fin dal titolo: Il senso della morte e l’amore per la vita nel Rinascimento (1957).
Non sfuggirà che sia questo libro che quello di Meiss siano stati pensati e scritti nel secondo dopoguerra: mentre si galoppava per lasciarsi alla spalle il disastro, e costruire un mondo nuovo. L’insistenza di Tenenti sulla «contemplazione della putredine e dell’annichilamento fisico» (sono ancora parole sue) rifletteva l’esperienza diretta del massacro della Seconda guerra mondiale, e teneva conto dell’ossessiva rappresentazione del corpo malato, piagato, morto, decomposto nell’arte che segue la Grande Peste.
Un’opera simbolo del Rinascimento come la Trinità di Masaccio in Santa Maria Novella a Firenze ruota tutta intorno al corpo: quello dei due donatori, vivi e riconoscibili in ritratti già parlanti, quello addirittura del Padreterno che deve reggersi su un mensolone brunelleschiano pur essendo purissimo spirito, quello ridotto a scheletro sotto l’altare, che rende chiara la presenza dei sottostanti sepolcri ammonendo noi vivi con un agghiacciante ritornello: «Io fu’ già quel che voi sete, e quel ch’io son voi anco sarete». Un affresco (1427) che cade a mezza strada tra la Peste di metà Trecento (quando le morti erano così numerose, rapide, incalzanti «che non altrimenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre», come scrive Boccaccio) e la celebre Canzona di Bacco (1490) in cui Lorenzo il Magnifico, constatato che «di doman non c’è certezza», esorta a cogliere ogni piacere: «ogni tristo pensier caschi / facciam festa tuttavia / Chi vuol esser lieto, sia».
Facciamo nostro l’anelito del Magnifico: quando finalmente potremo uscire di casa liberi e senza mascherina, tuffarci in mare, affollarci a un concerto, il sapore della vita sarà più intenso. Ma forse il messaggio più profondo è quello che coglieva Tenenti: la contemplazione della morte può – deve – aumentare il nostro amore per la vita.
Ad essere andata in crisi, col Covid, è quella rimozione della morte che costringe il nostro tempo ad un eterno presente, ad una perpetua irresponsabilità. Ora che non possiamo distogliere lo sguardo dalla nostra possibile fine collettiva, dobbiamo amarla davvero la vita: amare la continuazione della vita umana su questa terra.
Per questo, se davvero un Rinascimento può scaturire da questa orrenda epidemia, non potrà che essere un rinascimento fatto di amore per il pianeta, di sostenibilità, di ricerca, di lavoro non precario e sicuro, di cura per i più vecchi, fragili, poveri. Insomma: tutto il contrario di quella lunga peste che da tanto tempo ci opprime, e che non dipende dalla natura, ma dal nostro poco amore per la vita. Quella peste che si chiama tirannia del profitto, competizione, diseguaglianza, interesse privato. Per decenni non abbiamo visto la morte dei diversi (dei 24.000 al giorno che muoiono di fame, per dire): ora che moriamo noi, forse avremo il coraggio di dire basta. E di rinascere.
Articolo pubblicato in “Il Fatto Quotidiano”, 4 maggio 2020
Immagine in evidenza da Wikimedia Commons: Buffalmacco, Trionfo della morte (particolare), 1336-1341