di Tomaso Montanari
“Egli era nato nell’ambiente di coloro che erano sempre stati, o erano in seguito diventati, i potenti di quel mondo… di conseguenza, i dispensatori di beni terreni sotto forma di posti, appalti, concessioni e simili, gli erano tutti amici e non potevano trascurare uno dei loro”: la ferrea logica dell’oligopolio esposta da Tolstoj in Anna Karenina è, in Italia, la vera regola della cosiddetta economia del patrimonio culturale. Un’economia che, dalla legge Ronchey (1992) in poi, socializza le perdite (uno Stato con sempre meno soldi per la tutela, l’estrema precarietà dei lavoratori del patrimonio) e privatizza gli utili (redistribuiti tra gli amici degli amici).
È questo il sistema che è andato in crisi con la pandemia, ed è questo il sistema che si vorrebbe salvare con idee come il “fondo per la cultura” lanciato da Pigi Battista sul Corriere e subito entusiasticamente cavalcato dagli oligopolisti. Nonostante l’estrema vaghezza della proposta, una cosa è chiara: lo Stato dovrebbe garantire (come? Forse col suo stesso patrimonio, alla Tremonti-Carrai-Zanda?) che i privati tornino a fare profitti sul patrimonio pubblico. È il tentativo di far finta che nulla sia successo, continuando a fare business as usual: ma ogni giorno è più evidente che non solo ciò sarebbe sbagliato, ma che è anche impossibile. La vera sfida è la ricostruzione dello Stato: nella sanità, nella scuola, nella ricerca e, sì, anche nel patrimonio culturale. (Da questo punto di vista promette bene la presenza della più nota assertrice delle capacità innovative dello Stato, Mariana Mazzucato, tra i tecnici chiamati a immaginare la ripartenza; mentre assai meno incoraggiante è la guida affidata a un Vittorio Colao che nel 2015 inneggiava al Jobs Act e si lamentava della lentezza delle privatizzazioni…). Ecco i dieci punti su cui quella ricostruzione potrebbe avvenire.
1. Reinsourcing. Lo Stato deve ricominciare a fare ciò che molte grandi aziende stanno facendo, e cioè riprendersi ciò che ha affidato a sue società strumentali (come Ales) o ha appaltato a concessionari: e per questo deve assumere a tempo indeterminato coloro che fanno tutela e valorizzazione. Un New Deal del patrimonio che salvi il patrimonio salvando anche più generazioni di laureati.
2. Produzione e redistribuzione di conoscenza. Il livello infimo dei contenuti messi online dai musei italiani in questa quarantena, la gragnuola di errori e la palese inadeguatezza del Gran Virtual Tour del Mibact mostra che ci siamo ridotti a fare i piazzisti della Grande Bellezza. Bisogna recuperare la distanza con i grandi musei del mondo nella produzione di contenuti, e per far questo i nostri musei, archivi, biblioteche devono essere comunità della conoscenza.
3. Accesso gratuito a tutti i musei statali. È finito il tempo dell’economia del biglietto, abbiamo un vitale bisogno di innalzare il livello culturale del Paese.
4. Ogni istituto culturale deve mettersi al servizio della comunità a cui appartiene. Per essere globali occorre essere pienamente locali.
5. La scuola, e non il mercato del turismo, deve essere la prima destinataria e interlocutrice di ogni politica del patrimonio.
6. Basta privilegiare i grandi musei blockbuster, valutati solo coi biglietti. Attenzione capillare al patrimonio sotto-casa, mettendo al centro le aree interne e le piccole realtà.
7. Intendere il patrimonio come spazio pubblico della democrazia. Si parla a cittadini, non a consumatori o clienti.
8. Moratoria delle mostre. Pensiamo al patrimonio permanente, e facciamo poche e importanti esposizioni capaci di produrre conoscenza e parlare a tutti.
9. Chiudere la stagione delle sponsorizzazioni. (Basta usare il patrimonio, pagandolo un tozzo di pane, per alimentare l’industria del lusso). Aprire la stagione del mecenatismo, cioè di chi dona chiedendo in cambio solo riconoscimento morale (in Francia si raccoglie un miliardo di euro l’anno).
10. Sostegno pubblico, in termini fiscali e non solo, a guide turistiche, editoria, documentari, multimedia capaci di veicolare il patrimonio a tutti. Lo Stato deve garantire i “servizi pubblici intellettuali” (Gramsci), cosa che non fa da decenni, e incoraggiare una vera imprenditoria privata che non sia parassitaria e schiavistica.
Per questo programma, è chiaro, occorrono molti soldi pubblici: ma questo il governo Conte l’ha capito molto bene, e la sua battaglia per gli eurobond è sacrosanta. Si tratta di decidere come spenderli: si può tenere in piedi, a spese pubbliche, un sistema che succhia da decenni il sangue allo Stato in cambio di nulla. Oppure si può cogliere l’occasione per attuare l’art. 9 della Costituzione, e cioè per cambiare tutto: ricominciando a fare tutela, produrre conoscenza e dare ai nostri ragazzi un lavoro e non una catena da schiavo del patrimonio. Dipende solo da noi: mai come oggi cambiare è possibile. E doveroso.
Articolo pubblicato in “Il Fatto Quotidiano”, 15 aprile 2020