Nel silenzio. Quale sarà il senso del teatro? Quale sarà il posto al mondo per chi fa teatro?

di Elvira Frosini e Daniele Timpano

Siamo due artisti. Lavoriamo nel teatro, facciamo teatro. La vulgata ci vuole estrosi e fortunati, sì fortunati, perché facciamo un lavoro che amiamo. Ma siamo lavoratori come tutti gli altri. Viviamo del nostro lavoro. A parte poche eccezioni, non siamo dei privilegiati e non abbiamo le spalle coperte. In questo momento drammatico temiamo il dopo, ancora più tragico e incerto, come tutti. Già prima della pandemia essere artisti in Italia era un azzardo, ma ora sta diventando una tragedia. Siamo stati i primi a fermarsi, e saremo gli ultimi a ripartire.

Non abbiamo soluzioni, ma abbiamo domande. È necessario.

Nel grande strepitare continuo, nel dibattito nazionale, nel mainstream, nel dibattito politico, ci colpisce come una pietra tombale l’immenso silenzio riguardo all’arte e agli artisti. Nessun dibattito, nessun progetto, nessuna proposta, nessuna risposta. Non è prioritario? E perché? Che orizzonte abbiamo davanti? Non sarebbe giusto parlarne adesso? Immaginare? Prepararsi? L’arte, la cultura, gli artisti non sono fondamentali per attraversare questo momento e per ripensare, ricostruire, interrogare il nostro mondo?

Altrimenti, nella fase di transizione che ci aspetta, in questo lungo “durante”, che dovremmo fare noi artisti?

Metterci in soffitta, ibernarci vivi per un anno o due in attesa che si possa riparlare di teatro e di arte, perché adesso non è il momento?  Un passo indietro? Responsabilità? Silenzio? Al più puoi fare uno streaming casalingo per buona volontà, per empatia, per folclore e simpatia, se ti va.

L’arte, in tempi normali, è fondamentale quanto un ospedale. In tempi eccezionali come questi di sicuro è giusto che ci siano altre priorità, la salute dei nostri corpi, ma l’arte deve continuare a esistere perché è un presidio di pensiero, di riflessione e conoscenza: “L’artista è una bandiera, un simbolo vivente di un’intera società”, ha scritto Marco Baliani in una lettera recente dalla quarantena , “La rappresenta e interroga in ogni istante meglio, a volte, di come fa la politica o la filosofia”.

E dunque serve un piano, serve coraggio, serve soprattutto l’interlocutore, che se c’è è muto, silente. Come si vuole gestire oggi questa ormai ineluttabile fase di transizione che ci attende? Bisogna reinventarsi, dice qualcuno. Artisticamente sì, va benissimo, ci reinventeremo, non abbiamo mai smesso di farlo, è il nostro lavoro: ricercare, interrogarsi, inventare, investigare pensiero, linguaggi e forme. Questo sta agli artisti, e non ci tiriamo indietro, nessuno si tirerà indietro.

Ma economicamente e a livello di sistema non si può liberisticamente scaricare l’intera responsabilità di trovare soluzioni alle capacità di reazione ed inventiva del singolo, dell’artista, tanto più in un momento come questo in cui ogni settore economico necessita, a ragione, del sostegno pubblico. Occorre un pensiero che possa immaginare come traghettare gli artisti, chi fa questo lavoro delicato, verso il “dopo”. Abbiamo bisogno di un piano che ci permetta di farlo, restando vivi, e vivendo del nostro lavoro.

Due cose ci sembrano importanti, allora, adesso.

Come lavoratori dobbiamo sicuramente batterci per un reddito di sostegno, come tutti i lavoratori.

Come settore creativo serve un piano eccezionale che possa coraggiosamente e con lungimiranza continuare a far esistere il lavoro artistico nel periodo di transizione, sfruttando al massimo i mezzi che ci saranno concessi, momento per momento. Non possiamo abdicare, come Paese, al ruolo sociale che l’arte deve perseguire. Il lavoro artistico va sostenuto in questi mesi, adesso. Altrimenti rischiamo, come società, il deserto creativo.

Di questo deve parlare, ora, urgentemente, la politica. Dare risposte e sostegno. Ne parliamo?

Articolo pubblicato in “Minima&Moralia”, 7 aprile 2020

Foto di Andreas Glöckner da Pixabay

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